di MARCO ALESSANDRO UNICI
Le tesi di Schmitt contenute nel piccolo saggio “L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale” sono sicuramente figlie del contesto storico che il giurista tedesco aveva intorno; scritto nel 1941, in una situazione in cui la Germania dominava gran parte dell’Europa, esso mirava a suggerire un nuovo ordinamento internazionale, conseguenza della situazione che si pensava si profilasse dinanzi. E tuttavia, guardando all’essenza dell’idea espressa nel suo saggio, possiamo trovare molti interessanti elementi, addirittura anticipatori dei tempi che stiamo vivendo, e per questo funzionali a un concetto di sovranismo di respiro continentale.
Guardare all’essenza dell’idea è ciò che persino Schmitt ci invita a fare, sin dalle prime pagine; l’idea in questione però è la famosa dottrina Monroe, esposta nel 1823 dall’omonimo presidente americano in un discorso al Congresso. Occorre ricordare che la dottrina Monroe era in contrasto con la Restaurazione, vale a dire l’ordine mondiale creato dalle monarchie europee nel 1815, al quale opponeva l’idea – per così dire – indipendentista che rifiutava ogni pretesa di legittimità (e dunque ogni intervento) di quelle monarchie sul territorio americano. Questa dottrina forniva, secondo Schmitt, il primo esempio di quello che lui chiamava Großraum (“grande spazio”), cioè il concetto alla base di quello che sarebbe dovuto essere il nuovo ordinamento internazionale; difatti ciò che lui sottolinea della dottrina è proprio il suo nocciolo, ovvero “il nesso tra un popolo politicamente ridestato, un’idea politica e un grande spazio politicamente dominato da questa idea, che esclude interventi stranieri”.
Ciononostante Schmitt ravvisò come questa dottrina fosse stata reinterpretata dagli statunitensi, legandola all’universalismo dell’allora Impero britannico, e creando così un nuovo ordinamento mondiale; dopo la Grande Guerra, infatti, il presidente Wilson applicò la dottrina Monroe a tutti i Paesi del mondo, ideando l’altrettanto famoso “principio di autodeterminazione dei popoli”. Ciò diede, secondo il giurista tedesco, un carattere nuovo alla dottrina stessa, “trasformando così il nucleo sano di un principio dei grandi spazi nel diritto internazionale – cioè il principio del non intervento – in un’ideologia universale imperialistica, per così dire paninterventista, che dietro pretesti umanitari si immischia in ogni situazione”. Oggigiorno queste parole risuonano con spirito profetico.
Vediamo però ora come si sviluppa il ragionamento del giurista tedesco, calandoci nel contesto in cui si esprimeva, per arrivare ad afferrare meglio la sua idea.
Anzitutto tale concetto di “grande spazio” sembra essere in netto contrasto con la configurazione politica mondiale dettata dall’Impero britannico. Schmitt muove delle forti critiche all’ordine anglosassone che, nel 1941, rappresentava ancora quell’impero mondiale che solo dopo la guerra sarebbe stato sostituito dall’egemonia americana. Al tempo regnava quello che Schmitt chiama “il principio di sicurezza delle vie di traffico dell’impero britannico”: il mondo era concepito non come “spazi”, ma come “vie”, “strade” sulle quali il Regno Unito esercitava un’egemonia assoluta. Con le sue colonie sparse per tutto il globo (così come quelle francesi), non era un impero costituito da territori contigui, ma da territori collegati da rotte marittime. Da ciò non solo derivava il suo assetto, ma anche i suoi bisogni: il “principio di sicurezza delle vie di traffico” era la dottrina vitale per la sopravvivenza dell’Impero britannico, il quale mirava ad assicurarsi soprattutto il controllo sui canali e sugli stretti. Schmitt, riportando il caso del canale di Suez, fa notare come anche dopo la concessione dell’indipendenza a una sua colonia (in questo caso l’Egitto), il Regno Unito imponeva nei trattati delle clausole per assicurarsi l’internazionalizzazione dei canali e degli stretti: ciò, nell’epoca più florida dell’imperialismo britannico, significava il mantenimento del controllo sulle vie commerciali, benché ammantato di buonismo politico. Ma non solo: essendo le vie marittime internazionalizzate, qualora ci fosse stato un tentativo di nazionalizzazione o occupazione, gli inglesi sarebbero intervenuti mostrandosi “garanti” del diritto internazionale (da loro stessi istituito). Insomma, di fatto questo “principio di sicurezza”, come sostiene Schmitt, era semplicemente uno strumento con cui si applicava la legittimità dello status quo.
Ma cosa può opporsi a questo “principio di sicurezza delle vie di traffico”? Per Schmitt è chiaramente l’impero, ovverosia la nuova “misura” nel diritto internazionale, il quale “si colloca tra il vecchio ordinamento statale del XIX secolo e la meta universalistica di un impero mondiale”. Questi imperi sono (o saranno) le nuove grandezze dell’ordine internazionale; per Schmitt bisogna “opporre al concetto finora centrale del diritto internazionale, lo Stato, un concetto più semplice e giuridicamente utilizzabile, ma superiore e più efficace in virtù della sua piena attualità”. Infatti l’ordinamento statuale a quel tempo garantiva all’Impero britannico la parvenza di una “unione di Stati”, sebbene il suo potere si emanasse in senso universalistico; ciò che Schmitt mette in luce è proprio una tendenza, accentuata dalla pace di Versailles, che andava a sostituire lo Stato (misura non più adatta ai nuovi parametri internazionali) con un diritto mondiale in senso pacifistico-umanitario, di cui i garanti erano i vincitori anglo-francesi. Noi lo vediamo bene oggi in Europa, dove la sovranità è stata erosa e vige un regime universalistico di matrice statunitense. Peraltro, in questo senso, Schmitt riportava anche la teoria di un funzionario britannico suo contemporaneo, secondo la quale “il moderno sviluppo tecnico – soprattutto l’aviazione militare – porterà al superamento della guerra fra Stati: l’incremento degli armamenti aerei sarà sufficiente a mantenere la terra in condizioni di ordine e stabilità, sicché le guerre fra Stati verrebbero a cessare da sé, e alla fine rimarrebbero solo guerre civili o guerre punitive”. Leggendo ciò non possiamo che prendere atto della lungimiranza folgorante di tali parole, che previdero già allora quella che sarebbe diventata la dottrina NATO dell’odierno (dis)ordine mondiale.
Più nello specifico, ciò che il giurista tedesco promuove è il nesso tra impero, grande spazio e principio del non-intervento, come si è detto. L’impero non coincide con il grande spazio ma ha un proprio grande spazio, uno spazio operativo dove propagare la propria idea politica; Schmitt specifica che un impero non sarebbe tale senza un suo grande spazio. Il nuovo ordinamento internazionale deve (o dovrà) basare le relazioni su queste nuove grandezze, tenendo a mente quel principio di non-intervento che le caratterizza; dunque relazioni tra imperi, certamente, ma anche tra i popoli all’interno di un grande spazio e tra popoli di spazi diversi.
Questo concetto di “grande spazio” potrebbe essere perfettamente compatibile con la teoria dell’impero latino di Kojève. Tuttavia, ciò non deve essere visto come un obbligo di applicazione delle tesi del filosofo francese, bensì deve costituire un invito alla riflessione circa la duttilità del concetto schmittiano. In ottica continentale è evidente come un grande spazio europeo escluderebbe da subito le ingerenze statunitensi, favorendo un notevole recupero della sovranità; in più, coalizzando tra loro i principali Paesi (Francia, Germania, Italia), darebbe loro un’incidenza nettamente maggiore sui membri del gruppo Visegrad – oggi cani da guardia della NATO – non solo scacciando gli yankee, ma assicurando la volontà geopolitica di saldatura con la Federazione Russa. Non si può infatti speculare su una qualsivoglia idea di “Eurasia” senza sgombrare il campo europeo dall’intesa americano-polacca in funzione antirussa; ed è possibile soltanto facendo valere il peso di una coalizione di quei Paesi che hanno interesse a sviluppare rapporti con il Cremlino (ovvero i sopracitati Francia, Germania, Italia, senza farsi ingannare dal loro atteggiamento odierno, dettato unicamente dall’asservimento all’Alleanza Atlantica). In base alle categorie schmittiane, l’Europa occidentale, costituendosi impero, potrebbe proiettare la sua influenza nel grande spazio continentale, garantendo sicurezza all’Est-Europa e dialogo proficuo a Mosca.