Conflitto in Ucraina: la situazione militare (parte 1)

di NILO VLAS

Nell’articolo del 21 novembre scorso il sottoscritto aveva analizzato i risvolti politici della ritirata dei russi da Kherson, con la promessa di affrontare in seguito l’aspetto militare della faccenda. In fase di stesura di questo nuovo articolo tuttavia mi sono reso conto che era pressoché impossibile spiegare l’abbandono della città senza prima fare una panoramica globale delle principali difficoltà che la Federazione Russa sta riscontrando in questa guerra. Il seguente testo risulta quindi ben più lungo di quanto inizialmente immaginassi.

La domanda principale a cui cercherò di rispondere è la seguente: come si è giunti a questo punto? Avvicinandosi l’anniversario del primo anno di guerra, che cadrà il 24 febbraio 2023, bisogna capire come è possibile che la Federazione Russa, avviando un’invasione militare che nelle prime settimane sembrava portare a una rapida vittoria, abbia ora perso più della metà dei territori conquistati e sia costretta alla difesa passiva di quelli restanti.

Non è una domanda triviale, visto che il 24 febbraio la vittoria della Russia, forte del suo status di terza potenza militare al mondo, era generalmente data per scontata. Persino gli analisti più pessimisti (o ottimisti, a dipendenza dello schieramento) davano praticamente per certa la conquista di tutta l’Ucraina a est dello Dnepr.

Quindi che cosa è andato storto nell’Operazione Militare Speciale? Come vedremo, praticamente tutto.

Guerra “speciale” vs guerra convenzionale

Nello scorso articolo abbiamo visto come il nome stesso di «Operazione militare speciale» indicasse in origine la dimensione “privata” e “professionale” del conflitto e come ciò abbia indotto nei suoi confronti una pericolosa apatia nella società russa. Sul piano prettamente bellico il nome ci suggerisce anche altro: si è trattato di un’operazione pensata sì con l’impiego della forza militare, ma immaginando combattimenti di intensità limitata, in previsione di un rapido raggiungimento degli obbiettivi prefissati. Insomma, pur prevedendo l’impiego delle forze armate, un’operazione di questo genere è l’opposto di una guerra convenzionale. Per fare degli esempi, la soppressione della Primavera di Praga da parte dell’Armata Rossa si poteva definire un’operazione militare speciale. Allo stesso modo si può definire l’intervento della Federazione Russa e del CSTO in Kazakistan, a gennaio di quest’anno (ammettetelo, ve ne eravate dimenticati.) La Seconda guerra cecena in Russia viene invece ufficialmente chiamata Operazione controterroristica.

Insomma, simili formulazioni vengono usate per indicare conflitti asimmetrici e non convenzionali, come operazioni di regime change e di controguerriglia.

Il problema del corrente conflitto ucraino è che si tratta invece di una guerra molto convenzionale, dove due eserciti regolari, dalle capacità se non identiche perlomeno paragonabili, si fronteggiano in uno scontro “classico”, ossia con una chiara linea del fronte che separa i due schieramenti. L’errore strategico del Cremlino, alla base di tutti i problemi che si sono poi presentati nel corso della guerra, è stato ritenere possibile sconfiggere l’Ucraina nell’ambito di un’operazione militare speciale, evitando il conflitto convenzionale. Sulla base di questa illusione era anche stato modellato il piano di attacco iniziale.

Nei primi giorni di guerra un distaccamento delle forze armate russe penetrò in territorio ucraino da nord, partendo dal territorio bielorusso. Attraversando la zona di alienazione di Chernobyl’ giunse sulle periferie settentrionali di Kiev, preceduto da un reparto aviotrasportato che con un raid improvviso prese il controllo dell’aeroporto di Hostomel’, a sette chilometri dalla città. Contemporaneamente un altro distaccamento penetrava in Ucraina da nord-est. Attraversando le oblast’ di Sumy e Chernigov e lasciandosi alle spalle diverse guarnigioni ucraine, si avvicinò alle periferie orientali della capitale.

Un altro vettore di attacco interessò la oblast’ di Khar’kov. Diverse colonne puntarono su Khar’kov stessa, mentre nel sud della regione altre unità avanzavano verso Izium, cercando di aggirare il fianco nord dell’armata ucraina del Donbass.

Sul fronte meridionale, le colonne col marchio “Z” colpirono dal territorio della Crimea, prendendo rapidamente il controllo di Kherson e dell’omonima regione. Qui l’armata si divise, una parte diretta verso ovest, forse con l’intenzione di raggiungere la Transnistria, e l’altra verso est, percorrendo la costa del Mar Nero in direzione di Mariupol’.

In Donbass anche le milizie delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk passarono all’attacco.

Insomma, il piano originale dell’offensiva prevedeva almeno 5 o 6 vettori di attacco, che non sempre si sostenevano l’un l’altro. Per esempio i due distaccamenti che avanzavano su Kiev da Chernobyl’ e dalla regione di Chernigov, sebbene puntassero entrambi ad assediare la capitale, di fatto non erano in comunicazione l’uno con l’altro perché divisi dal fiume Dnepr, che a nord di Kiev non presenta ponti.

Le colonne di punta si diressero rapidamente verso i propri obbiettivi, senza badare troppo alle forze ucraine che si lasciavano alle spalle. In tutto ciò le forze dispiegate dai russi venivano stimate sui 150’000 uomini, il che vuol dire che il numero di effettivi impiegati su ogni direzione di attacco era molto limitato. L’operazione faceva affidamento sulla rapidità di movimento e la qualità dei reparti di punta, nonché sull’effetto sorpresa. Il controllo del territorio non rientrava tra gli obbiettivi, siccome una volta spodestato il governo di Zelensky non sarebbe stato necessario controllarlo. L’Operazione Militare Speciale era stata insomma pianificata come un blietzkrieg.

Non è del tutto chiaro perché lo Stato Maggiore russo lo ritenesse fattibile, ma sicuramente ebbero luogo diversi grossolani errori di valutazione. In primis ci si aspettava un vasto sostegno della popolazione locale, che avrebbe legittimato l’intervento russo e delegittimato (oltre che demoralizzato) le forze armate ucraine. Abbiamo ampiamente discusso nel primo articolo perché ciò non sia avvenuto. In secondo luogo il Cremlino probabilmente si aspettava il panico tra la dirigenza ucraina, che le avrebbe impedito di organizzare una difesa efficace. Il panico effettivamente c’è stato (tutti ricordano la faccia di Zelensky sniffata di coca per darsi coraggio), ma non ha avuto l’effetto desiderato, siccome dell’organizzazione della difesa si è occupato direttamente il Pentagono, essendo l’Ucraina un paese de facto commissariato. Infine, la Russia ha evidentemente sopravvalutato l’impatto che avrebbero avuto alcuni tipi di armamenti, soprattutto l’aviazione e i missili alati.

Perché lo Stato maggiore russo abbia commesso errori così grossolani nella pianificazione dell’operazione resta oggetto di discussione, ma il fatto è sotto gli occhi di tutti: praticamente nessuno dei vettori di attacco raggiunse il suo obbiettivo. Già nei primi giorni ci si accorse che lasciare nelle retrovie le guarnigioni ucraine non era stata una scelta saggia, siccome invece di arrendersi esse iniziarono a colpire le colonne di rifornimento, costringendo le unità di punta a indebolire il proprio potenziale offensivo per presidiare le vie di comunicazione.

Così a nord i russi non riuscirono ad entrare a Kiev. Con il tempo gli ucraini concentrarono molte forze nell’area, costringendoli ad abbandonare interamente le oblast’ di Kiev, Chernigov e Sumy per evitare di rimanere isolati dai rifornimenti. A nord-est alcune colonne russe entrarono addirittura a Khar’kov, trovando una città ben preparata alla difesa. Alcune unità vennero circondate e annientate all’interno del perimetro cittadino, le altre uscirono di corsa e si attestarono sulle sue periferie orientali. Nel sud della regione di Khar’kov l’avanzata su Izium procedeva invece a grande lentezza. A sud-ovest le forze russe attraversarono addirittura il Bug Meridionale, ma rimasero anch’esse isolate dai rifornimenti e dovettero tornare indietro. Su questo versante risultò impossibile persino la conquista di Nikolaev. Solo sul mar d’Azov venne raggiunto un parziale successo: le truppe russe provenienti dalla Crimea riuscirono ad accerchiare Mariupol’ ricongiungendosi con le milizie delle Repubbliche Popolari, che avevano sfondato la difesa ucraina a Volnovacha. La difesa di Mariupol’, allestita dal battaglione Azov e camerati, riuscì però nell’obbiettivo di logorare il potenziale offensivo di questa armata, che, concluso l’assedio dell’acciaieria Azovstal’, non riuscì a proseguire con il suo obbiettivo strategico, ossia avanzare verso nord per ricongiungersi con le forze russe che avanzavano su Izium. Ciò avrebbe comportato l’accerchiamento di tutte le forze ucraine nel Donbass (che contava le unità meglio addestrate ed equipaggiate), paragonabile alla sacca di Stalingrado in cui fu annientata la 6a Armata della Wehrmacht. Ad ogni modo la conquista di un passaggio terrestre tra la Russia continentale e la Crimea è l’unico successo decisivo della prima fase dell’Operazione militare speciale. È anche l’unico risultato strategico che i russi ancora conservano a dicembre 2022.

Tirando le somme, la strategia scelta dallo Stato maggiore fallì quasi completamente, siccome nessuna delle direzioni d’attacco era dotata delle forze sufficienti per portare a termine gli obbiettivi prefissati, tanto più non essendo debitamente sostenute dall’apparato logistico. Ovunque i russi si trovarono a fronteggiare forze ucraine numericamente soverchianti, che li costrinsero alla ritirata.

L’errore alla base di questa strategia è stato proprio quello di pensare l’operazione come “speciale”, e non come una guerra convenzionale. L’impresa era pensata come una guerra lampo per effettuare un regime change: piccole task force avrebbero preso sotto il proprio controllo i principali centri politici e vie di comunicazione, tagliando le gambe al governo. A sostegno di questa tesi vi è il fatto che le colonne russe che avanzavano su Kiev erano accompagnate da gruppi di attivisti ucraini filorussi, come il noto Oleg Zarev, che avrebbero potuto costituire un governo provvisorio. Appare lecito ipotizzare che, con le forze a disposizione, la Russia avrebbe ottenuto risultati migliori concentrandosi solo su due o tre vettori di attacco decisivi, invece di disperdere le forze su sei o sette direzioni. Ma ciò avrebbe imposto degli obbiettivi iniziali più modesti, rimandando nel futuro la destituzione del governo-marionetta di Kiev. Ciò avrebbe inquadrato l’intera impresa in un’ottica di guerra convenzionale, eventualità che al Cremlino evidentemente rigettavano in toto.

Eserciti professionali vs eserciti di massa

L’errore strategico del comando russo trova le sue origini anche nel moderno paradigma bellico fondato sugli eserciti professionisti. Sia la NATO che la Russia, dopo la fine della Guerra Fredda, optarono per una profonda ristrutturazione dei rispettivi apparati militari, in senso economicamente meno dispendioso e più adatto alle sfide militari del XXI secolo.

Dunque sono stati liquidati gli eserciti di massa fondati sul servizio di milizia, puntando su eserciti di professionisti, ben addestrati ed equipaggiati ma numericamente esigui. L’obbiettivo della NATO non era più fronteggiare le infinite schiere di comunisti pronte a invadere l’Europa, ma portare avanti missioni di controterrorismo e peacekeeping, che peraltro si configuravano come uno sforzo collettivo al quale ogni membro contribuiva.
L’esercito russo si trovava di fronte a compiti tutto sommato simili: dalla guerra in Cecenia all’intervento in Siria, si trattava di conflitti asimmetrici incentrati piuttosto sulla controguerriglia. Sebbene la Russia disponga di un esercito di milizia, che ancora nell’ultima campagna cecena era stato ampiamente impiegato nei combattimenti, lo Stato ha progressivamente cessato di fare affidamento su di esso come una forza militare, trasformandolo in pratica in una sorta di “educazione civile”. Come abbiamo visto negli ultimi mesi, non solo l’esercito di milizia non è stato impiegato nei combattimenti, ma nemmeno nelle funzioni di controllo delle retrovie, e la situazione non è mutata nemmeno con l’annuncio della mobilitazione parziale. Ciò è dovuto al fatto che l’efficienza militare delle giovani reclute è ritenuta praticamente nulla.

Il paradigma della guerra nel XXI secolo, condiviso dall’Occidente e dalla Russia, non prevedeva dunque un conflitto convenzionale come quello attualmente in corso in Ucraina.

Proprio in Ucraina si è visto come la scommessa russa sull’esercito professionale compatto, ben addestrato ed equipaggiato, non ha pagato di fronte all’esercito ucraino di massa. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, il piano iniziale dell’Operazione militare speciale si è infranto contro la superiorità numerica ucraina, ottenuta con un metodo tanto antico quanto banale: la mobilitazione totale.

Lo Stato maggiore russo è rimasto avvinghiato a un dogma sbagliato almeno fino alla fine dell’estate. Tutti ricordano come il Ministero della Difesa, ma anche il presidente Vladimir Putin, abbiano continuato a ripetere che “tutto è sotto controllo” e l’”operazione militare speciale procede secondo i piani”, senza contare affermazioni ancora più assurde, sulla falsa riga di “la Russia non ha fretta” e “non abbiamo ancora iniziato a fare sul serio”. L’impressione è che per molti mesi al Cremlino non si rendessero conto della gravità della situazione, dovuta al rapido peggioramento dei rapporti di forza.

Sun Tzu, nell’”Arte della Guerra”, tra i vari principi aveva espresso il seguente, che non ha minimamente perso valore nonostante i secoli: L’essenza della guerra è la velocità. Permette di avvantaggiarsi sul nemico impreparato, giungendo da strade impreviste e colpendolo dove non ha eretto difese.

Concluse senza successo le prime settimane di dinamica avanzata, l’esercito russo ha fatto l’esatto opposto. Il fronte è entrato in una situazione di stallo praticamente ovunque, mentre le principali azioni offensive dei russi avvenivano (e avvengono tutt’ora) in Donbass, proprio dove il nemico è più preparato e si avvale di pesanti fortificazioni, erette in otto anni di guerra contro le Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk. Il risultato è noto: a dieci mesi dall’inizio della guerra, il Donbass non è ancora stato liberato.

Tutto ciò aveva creato la situazione ideale per l’Ucraina per preparare la controffensiva. La generale stabilità del fronte ha permesso all’esercito di Kiev di addestrare ed equipaggiare in tutta sicurezza centinaia di migliaia di nuovi soldati, che sono andati ad aumentare il già sproporzionato rapporto di forze sul campo. I risultati non si sono fatti attendere. All’inizio di settembre gli ucraini sfondarono a Balakleya, costringendo i russi ad abbandonare tutti i territori controllati nella regione di Khar’kov.

Fu curioso allora osservare le giustificazioni di una simile disfatta. “Ma gli ucraini sono riusciti a sfondare solo con una superiorità di 8 a 1”, diceva la propaganda russa di Stato, prontamente ripresa da molti presunti “esperti” della controinformazione italiana. Come se ottenere la superiorità numerica sia quasi “barare”, un colpo basso inaccettabile in una sfida tra gentiluomini. Ma la guerra non è un duello di scherma tra due aristocratici: la superiorità numerica è il mezzo più ovvio per ottenere un vantaggio sul nemico. Se gli ucraini riescono a creare una superiorità numerica di 8 a 1, sufficiente a operare grandi sfondamenti del fronte nemico, significa che la loro strategia bellica, fondata sull’esercito di massa, è semplicemente più efficace di quella russa.

La mobilitazione parziale annunciata in Russia a fine settembre, insieme alla cessione del comando al generale Surovikin, va letta come un’ammissione del fallimento della strategia iniziale. Per riuscire a competere con l’Ucraina, anche la Russia deve affidarsi a un esercito di massa. Dunque è anche molto probabile che la mobilitazione autunnale non sarà l’ultima. L’abbandono di Kherson va letto sempre in quest’ottica: ottimizzare le forze a disposizione schierandole su un fronte più ristretto e facilmente difendibile, in attesa dell’arrivo della massa dei mobilitati.

Tutto ciò induce a riflessioni poco felici sullo stato dell’arte militare in Russia. Ci è voluta una serie di dolorose sconfitte per indurre la dirigenza del paese ad abbandonare un dogma militare evidentemente inadatto alla situazione. La domanda sorge spontanea: cosa sarebbe successo se la mobilitazione parziale in Russia fosse stata condotta non in autunno ma subito, a febbraio? Forse questa guerra sarebbe già finita.

Nota dell’autore: la seconda parte dell’articolo verrà pubblicata a breve. Qui il link al primo scritto sull’argomento https://fuoriperimetro.com/21/11/2022/labbandono-di-kherson-il-fallimento-ideologico-della-strategia-di-putin-in-ucraina/

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