di THOMAS G.
Premessa
A più di un anno dall’ormai celebre 15-18 ottobre 2021 sento, forse anche in ritardo, di voler esprimere delle considerazioni riguardo i fatti che accaddero in quei giorni, alcune di esse utili anche per descrivere certi tratti comuni a tutto il movimento “No Green Pass”.
Mi sento di scrivere queste riflessioni in quanto percepisco nettamente che una stagione sia finita e che sia bene far calare il sipario sul variegato ed eterogeneo movimento NO GP, sicuramente NON perché le rivendicazioni dello stesso non abbiano più senso di esistere (basti pensare al fatto che il Green Pass nel nostro Paese viene ancora richiesto per accedere alle visite dei propri cari in RSA e strutture ospedaliere…) né ovviamente per il fatto che non ci siano motivazioni per la quale valga veramente la pena lottare; bensì in quanto nella situazione attuale il movimento non risponde più alla “realtà”, ma si ritrova a essere mantenuto in vita da pochi volenterosi secondo un canone e una forma che potevano reggere un anno fa, ma che ora, a mio avviso, non solo non sono più “proponibili”, ma potrebbero risultare potenzialmente dannose. Va detto anche che la realtà civile potrebbe essere stravolta nel giro di poco tempo, mandando in frantumi tutte le mie tesi qui esposte.
Il netto ridimensionamento delle misure restrittive, che non va visto come un risultato vittorioso della mobilitazione, ma come una decisione calata dall’alto dal governo, è stato uno dei principali fattori che ha fatto sì che le piazze NO GP si spopolassero sempre più. E anche laddove i movimenti locali abbiano deciso di ampliare le tematiche della protesta, come per esempio la contrarietà alla NATO, all’operato del governo sulla questione del conflitto in Ucraina e/o al correlato carovita, non si è vista una grossa ripresa. Probabilmente, per quanto la gravità delle tematiche citate sia inoppugnabile, la maggioranza del “popolo NO PASS” stesso dimostra di non essere disposto a muoversi se non con l’acqua alla gola o con alle calcagna un diavolo desideroso di mordergli le chiappe. Questo è un elemento che si era già intravisto nel periodo in cui avveniva il progressivo aumento dei guariti da Covid, e conseguentemente dei muniti di Pass provvisorio; situazione che aveva portato a una progressiva diminuzione della partecipazione nelle piazze.
La scarsa partecipazione si somma ad altre problematiche riscontrabili nelle varie realtà NO PASS, e il fatto che non si siano ancora ripresentate delle condizioni tali da poter smuovere nuovamente una parte più diffusa della popolazione, mi induce a prendere atto che il movimento spontaneo così come l’abbiamo conosciuto sia fondamentalmente destinato a morire, cosa naturale e comune alla stragrande maggioranza dei movimenti spontanei.
A meno che non accadano eventi in grado di stravolgere queste mie tesi, e nella speranza di essere smentito, credo che in questa fase “non ci sia molto da fare”, e con ciò non voglio dire che dobbiamo dimenticare ciò che è accaduto e andare a stravaccarci sul divano; significa invece che dobbiamo capire che siamo reduci da una sconfitta, che ora non abbiamo forze, che questo non è il periodo dei grandi cortei e delle grandi manifestazioni, e che sostanzialmente il movimento non conta quasi nulla…
Che fare dunque?
Ebbene io credo che in questo periodo, oltre a tenere vive tutte le straordinarie relazioni umane instauratesi tra noi nel corso degli ultimi tempi (cosa che mi sembra il comune denominatore del movimento NO GP, sperando che la mia sensazione sia fondata), si debba procedere a un’attenta e profonda riflessione su ciò che abbiamo vissuto, riuscendo anche e soprattutto a individuare e cogliere quegli aspetti che possono essersi rivelati nostri limiti, errori o mancanze.
Piuttosto che illudersi e perseverare in un operato inconcludente e inappropriato, invece che finire a riporre i nostri sforzi in realtà che cominciano ad apparire sempre più torbide, malsane e fuorvianti (scrivo questo perché percepisco anche che talune realtà che hanno fatto o fanno parte tuttora del movimento risultino animate da intenti e visioni sbagliate, a volte disgustose se non addirittura marce), c’è l’esigenza ora di confrontarsi e sviluppare quello che si potrebbe chiamare “dibattito teorico”, che in un momento come questo non risulterebbe essere solo una mera attività mentale, ma anche un’opera capace di avere un risvolto tangibile e pratico in un futuro più o meno vicino, se fatta profondamente, correttamente e interiorizzata.
Difatti riflettere e inquadrare ciò che nella nostra lotta non ha funzionato ci aiuterà a maturare e a crescere, nell’auspicio che, qualora il momento “dell’azione” e della “concretezza” dovesse tornare, potremo farci trovare più sicuri, strutturati e forti della nostra passata esperienza.
Sui fatti di Trieste non ho trovato in giro (in forma scritta) molte vere, articolate e profonde riflessioni, quanto piuttosto commenti e condivisibili manifestazioni di sdegno per la repressione subita.
Uno di quei pochi articoli validi è quello scritto per Fuori Perimetro da Marco Alessandro U. “18 ottobre 2021, il giorno della disfatta”, che invito tutti a darne lettura, e che sostanzialmente mi trova d’accordo.
Prima di accingermi a concludere questa mia fluviale premessa voglio chiarire, qualora non fosse evidente, che prendo in esame e concentro le mie riflessioni sui fatti del 15-18 ottobre 2021 in virtù del fatto che la mobilitazione del porto di Trieste fu cruciale: quelle giornate, apice della protesta contro la tessera verde, segnarono quella che fu la nostra disfatta, come giustamente scritto da Marco Alessandro U.
Prima ho scritto che il progressivo spopolamento ha tra le cause principali il ridimensionamento delle restrizioni; tuttavia questa non posso che considerarla UNA tra le TANTE cause.
Indiscutibilmente un’altra fu a mio avviso il fatto che il 18 ottobre segnò per molti la fine di una speranza, lasciando molte persone in preda allo sconforto e alla delusione. Proprio quel giorno, quella sconfitta, segnò l’inizio della nostra crisi.
Trieste simbolo (inter)nazionale della lotta
Prima di andare a mettere il dito nella piaga, credo sia necessario soffermarsi brevemente a riflettere su ciò che portò la città giuliana e il suo porto, a essere il fulcro per il movimento No Green Pass. Vi sono, a parer mio, essenzialmente due fattori.
Il primo è che Trieste, per delle ragioni che non mi sono ancora del tutto chiare (probabilmente hanno un ruolo la storia della città, la sua localizzazione geografica, la sua cultura e la composizione della sua popolazione), è stata la città che ha avuto la più grande partecipazione popolare ai cortei e alle manifestazioni contro le discriminazioni introdotte dal governo Draghi, soprattutto in rapporto alle sue dimensioni.
Se ai primi eventi risalenti a luglio e agosto 2021 si assisteva a una partecipazione molto variabile, che talvolta poteva vedere coinvolti qualche centinaio di manifestanti, altre volte raggruppare qualcosa come quasi quattromila persone, un numero considerevole per una città che conta poco meno di 200.000 abitanti, con la seconda metà di settembre a Trieste il numero dei partecipanti superò le 10.000 unità, per poi arrivare al picco dei primi di ottobre con un corteo che si dice fu alimentato da circa 30.000 cittadini. Questi numeri molto probabilmente portarono alla novità che è stata senza ombra di dubbio l’altro fattore che ha reso Trieste la città cruciale: la discesa in campo dei portuali.
E’ verosimile pensare che senza una tale massa cittadina scesa nelle strade, i lavoratori di quel porto che è lo scalo commerciale più importante d’Italia non avrebbero intrapreso la strada che noi tutti conosciamo. Tutto ciò strideva con la decisa fermezza “filogovernativa” dei massimi rappresentanti delle istituzioni locali e della grande borghesia triestina; tuttavia la sensazione che il fermento cittadino potesse portare a qualche risultato evidentemente iniziò a serpeggiare anche tra le gru e i containers dello scalo alto-adriatico, e ciò si unì al fatto che molti dei dipendenti che vi lavoravano non erano vaccinati.
La presa di posizione del CLPT (il maggiore sindacato del porto di Trieste, all’epoca) a seguito della notizia dell’introduzione del pass per accedere ai luoghi di lavoro e la promessa di bloccare il porto fino al ritiro completo del Green Pass, diedero ulteriore linfa all’entusiasmo in città e ben presto la notizia fece il giro d’Italia.
I portuali si unirono in gran numero alla cittadinanza in corteo, e grazie alla loro “muscolosa” presenza la manifestazione risultò da subito più decisa, forte e grintosa. I colossi in gilet giallo-arancione infondevano sicurezza e ben presto agli occhi di molti assursero al ruolo di “eroi”.
Tutti cominciavano a guardarli come se fossero d’esempio: essi erano il primo (e purtroppo de facto unico) caso di classe lavoratrice scesa apertamente, collettivamente e ufficialmente in campo nella lotta contro l’apartheid vaccinale. Purtroppo la loro mobilitazione avvenne apparentemente in maniera organizzata.
Nel subconscio percepimmo che per la prima volta, grazie a loro, forse qualcosa poteva cambiare; e, FORSE, anche in taluni palazzi romani ci fu un pensiero a riguardo.
“Eppure c’è una sola speranza, scrisse Winston, si trova fra i prolet. Seppure c’era una sola speranza, doveva trovarsi fra i prolet, perché solo fra essi, in quelle masse disprezzate, stipate in alveari (e che formavano, si badi, l’85 per cento della popolazione di Oceania) poteva generarsi la forza capace di distruggere il Partito.”
– G. Orwell, 1984
Poi arrivò il 15 ottobre, il GP iniziò a essere richiesto per lavorare, iniziò il presidio (che non fu un blocco) davanti al principale varco del porto e la vicenda attrasse addirittura l’attenzione internazionale.
LE CAUSE DELLA SCONFITTA
Mancata solidarietà e mancata discesa in campo di altre parti di classe lavoratrice.
Parto per le mie riflessioni dall’analisi di Marco Alessandro, dalla quale riporto un breve estratto: “Sull’esempio di Trieste, altri scali della Penisola avevano cominciato a creare problemi, fermando i lavori”.
Sebbene qualcosa si mosse in giro, soprattutto a Genova, occorre prendere atto che in realtà i portuali triestini sono stati lasciati soli dagli altri portuali d’Italia, come anche da tutte le altre categorie (forse per Genova non è corretto scrivere questo, ma al di là dell’eccezione dei sodali liguri nessun altro porto dimostrò una concreta solidarietà; nemmeno, cosa a mio avviso assai grave, dopo le incresciose scene del 18).
Chi partecipò alle proteste si illudeva, sperava che il 15 ottobre l’Italia si svegliasse paralizzata: si fantasticava di autostrade bloccate, di camionisti ancorati nei parcheggi, di operai in sciopero, poliziotti e militari “fuori servizio” e, naturalmente, di porti fermi.
La realtà fu amaramente diversa: il 15, giornata in cui venne indetto uno sciopero a livello nazionale, ci furono sì manifestazioni partecipate, ma nessuna categoria si mobilitò in maniera collettiva, diffusa e organizzata. Quel poco che ci fu si rivelò essere sostanzialmente, e perdonate la bassezza e la volgarità, un “mezzo peto”.
Dal 16 fu definitivamente chiaro che le fabbriche lavoravano, che nei porti le navi scaricavano le merci (alcune navi vennero dirottate da Trieste ad altri scali adriatici), che negli uffici gli impiegati rispondevano al telefono e facevano i conti, che le autostrade erano attraversate regolarmente dalle file di camion, e che le farmacie erano prese d’assalto da file di lavoratori pronti a porgere il naso.
Nello stesso porto di Trieste non ci fu alcun blocco totale, sebbene la stragrande maggioranza dei lavoratori non si fosse recata al lavoro in quei giorni.
Si ebbe la conferma che il movimento NO GREEN PASS continuava ad avere un grande, e determinante, assente: il proletariato (e lo scrivo con molta franchezza e convinzione, nonostante credo siano in molti a ritenere questa terminologia anacronistica).
A maggior ragione tutto il Paese che aveva a cuore la situazione rivolse le proprie speranze e aspettative al molo VII e a quei portuali che erano un’eccezione, a quegli uomini che erano stati lasciati praticamente soli dalle altre categorie di lavoratori e che erano sì testimoni di una grande solidarietà umana, data dai presenti e da tutte quelle persone che con il cuore erano a Trieste, ma anche di una totale mancanza di solidarietà operaia (un tempo caratteristica tipica della categoria dei portuali), già palesatasi tristemente in tutte le mense aziendali d’Italia.
All’aumentare delle aspettative e delle speranze del movimento sul porto, unica “fortezza operaia” in piedi contro le misure del governo, vi fu analogamente l’incremento della responsabilità e della pressione in carico ai portuali, assolutamente impreparati a gestire una situazione simile.
Trieste aveva chiamato… in pochi risposero.
Mancanza di organizzazione, mancanza di coesione e crepe interne
Come scritto anche dal Marco Alessandro, una cosa che fu ben presto evidente fu la grande disorganizzazione dei portuali. Essi si dimostrarono impreparati a gestire ciò che avevano messo in moto, anche perché probabilmente si aspettavano di condividere la lotta con colleghi di altri porti o altri lavoratori di altre realtà che si erano mobilitati ed erano un minimo organizzati, che facessero sì che Trieste non fosse un unico “baluardo”, bensì uno tra gli altri.
A ogni modo il fatto di essersi esposti e gettati nella mischia senza piani concreti e in balia degli eventi è sicuramente l’errore principale che va attribuito ai portuali; un errore che tutt’ora credo stia continuando a sortire effetti dannosi tra di loro (e chi sa che clima si è instaurato in porto a seguito degli eventi lo può confermare).
L’enorme pressione, anche mediatica, e probabilmente le prime “minacce” che iniziarono ad arrivare dalle autorità spaccarono quella compattezza e determinazione che i portuali avevano affermato di avere, ma che in realtà risultò essere più di facciata che altro (si cantava “la gente come noi non molla mai”). Veniva sempre più a galla che la maggioranza non era veramente determinata a portare avanti le rivendicazioni annunciate, come invece si sarebbe dovuto fare.
Tra i portuali si crearono delle fazioni, riassumibili grosso modo nella divisione tra chi voleva farla finita e chi voleva proseguire.
Già sabato 16 furono in molti a pensare di averla fatta fuori dal vaso, e questo dopo appena una giornata di presidio.
Se già tutto gravava sulle spalle dei portuali giuliani, la loro spaccatura rese le cose ancor più gravi e difficili.
La faccenda si tradusse nelle uscite confuse del sabato sera, in cui il noto portavoce dei portuali, nel frattempo divenuto icona e idolo popolare, annunciava la smobilitazione del presidio, innescando scene drammatiche e generando un fortissimo sconforto generale, salvo poi fare marcia indietro e proclamare la prosecuzione della protesta.
Da quel momento in poi la sensazione netta che ho è che la gran parte dei portuali si defilò, e a “difesa” del porto ne rimase una minoranza, appoggiata dai tanti cittadini presenti e da coloro che erano arrivati dalle zone più remote d’Italia.
Un’ultima considerazione su questo punto è che uno dei sintomi della mancanza di organizzazione e di struttura è stato il fatto che troppe attenzioni e tanta “autorità” venne riversata su un singolo, che divenne appunto un leader stimato agli occhi del “popolo no pass”, in grado potenzialmente in quei giorni di influenzare tutte le piazze. In questo ci si misero sicuramente anche i media, che sentono sempre la necessità di avere una figura simbolica da poter elevare o distruggere.
A mio avviso una realtà organizzata e strutturata non può permettersi di mettere una singola figura sotto i riflettori in tale maniera, in modo poi da scaricare tutte le responsabilità su di essa; bensì la deve sostenere, aiutare, affiancare e, se necessario, saperne anche fare a meno. Ciò per il bene del singolo individuo come per quello della causa, anche perché chi sta dall’altra parte della barricata ha più facilità a influenzare, pressare o addirittura ricattare un singolo, in grado poi di [dis]orientare tutto un movimento, piuttosto che un’organizzazione, una rete o una comunità strutturata.
Il 18 ottobre, la mancata “difesa” del porto e “l’incarcerazione” in Piazza Unità
In molti, a seguito dei fatti del porto di Trieste, persero fiducia e si fecero vincere dalla rassegnazione. Personalmente mi è capitato di imbattermi in frasi del tipo “le abbiamo provate tutte, abbiamo fatto grandi manifestazioni, abbiamo fatto il possibile e non è cambiato nulla… non c’è niente da fare”.
Pur comprendendo tutto ciò, va chiarita una cosa: non è stato fatto tutto il possibile, o comunque ciò che è stato fatto poteva sicuramente essere fatto meglio.
Se c’è una personalissima considerazione che voglio esporre è che il porto non è stato “difeso” come si sarebbe potuto fare; e qui si sono pagate l’assenza totale di organizzazione e sicuramente tante remore e timori in merito a un approccio più attivo all’opposizione allo sgombero.
Sgomberato il porto, nella tarda mattinata, nei modi che ben abbiamo visto, la gran parte della gente (che sostanzialmente non reagì alla violenza subita) venne fatta defluire e radunare nella tutto sommato distante Piazza Unità, ben presidiata da polizia e carabinieri in assetto antisommossa.
Era chiaro che laddove la protesta poteva incidere era il porto, considerando che ostacolare la regolare attività dello scalo toccava gli interessi di grandi aziende e addirittura di Stati (in primis quello che ci imponeva il Green Pass) e che esso era diventato ormai un simbolo da difendere. Ciò che si fece invece, a evidente vantaggio di chi voleva domare e spegnere la nostra lotta, anche grazie all’opera da “pompieri” svolta da alcuni illustri esponenti del nostro movimento, fu rimanere fermi in piazza a bollire per ore, illusi da promesse di trattative o fantomatici dialoghi con alcuni ministri, che sappiamo tutti come sono andati a finire, e irretiti in una fine trappola. Fu così che la piazza si ritrovò a vivere sulla propria pelle la teoria della “rana bollita” e pian piano venire svilita e stremata, e fu così che la diffusa rabbia, che c’era e che poteva generare fenomeni indesiderati alle autorità, venne domata.
Dulcis in fundo la sera, su direttiva del prefetto, vi furono manifestanti che vennero convinti a recarsi nella zona del porto vecchio, ossia dalla parte opposta della città rispetto al porto nuovo, il luogo che occorreva difendere.
Un errore è stato dunque anche quello di non aver tentato di tornare in quel luogo in cui potevamo sperare di incidere, facendosi vincere troppo facilmente e raggirare ingenuamente, e anche da questo possiamo dedurre che si era preda alla disorganizzazione. La mancanza di una visione, di accortezza politica, di un programma e di una struttura sono state caratteristiche comuni a tutta la galassia No Pass, dagli inizi fino a, quasi sicuramente, ora (magari con delle piccolissime eccezioni).
Se ci poteva stare “perdere” il porto, non andava bene farlo senza lottare.
In quella giornata del 18 ottobre continuò a prevalere una certa linea che a sproposito veniva definita “Gandhiana”, posizione all’epoca maggioritaria in tutto il movimento. Essa, pur alimentata da nobili principi, nella pratica portò al fatto che la nostra lotta rimanesse sempre e comunque nel recinto “legalitario”, facendo sì di evitare una vera vampata di rottura, a quel punto forse unica via per riuscire ad ottenere qualche nostra rivendicazione e a far valere un minimo il nostro potenziale.
Quel 18 ottobre, a seguito del violento sgombero al molo VII, al quale si contrappose la civile e pacifica resistenza passiva, c’erano le condizioni per portare parte dei manifestanti a “uscire dal recinto” (e se tale precedente fosse partito a Trieste avrebbe potuto anche avere un seguito, come un’onda, nelle altre città italiane), e questo i tutori dell’ordine lo compresero e riuscirono a gestire e contenere la situazione molto efficacemente, confinando il dissenso nella ben presidiata piazza centrale e inaugurando la scenetta delle trattative, avvantaggiati anche da una certa “collaborazione”, speriamo involontaria e in buona fede, di taluni tribuni della plebe no pass che intrattennero le migliaia di persone presenti e ne spensero il potenziale fuoco.
Tuttavia una minoranza di manifestanti non si fece scacciare al mattino e tentò un’audace e titanica difesa del porto, incontrando una risposta molto decisa delle forze di polizia, a dimostrazione del fatto che per le autorità anche quei pochi rimasti erano una vera spina nel fianco, molto più fastidiosi delle migliaia di persone che scuocevano di fronte alla prefettura nel centro di Trieste, che riuscì comunque a bonificare definitivamente la zona solo a sera inoltrata con un dispiego veramente massiccio di gas lacrimogeni.
Gravi furono certe dichiarazioni del pomeriggio del 18 in merito, pronunciate in piazza Unità proprio da persone che si ergevano a rappresentanti dei no pass, che screditavano e attaccavano coloro i quali, con coerenza e coraggio, erano rimasti in porto nel disperato tentativo di non far morire la fiamma della protesta, venendo definiti “infiltrati”.
Insomma quella che poteva essere una rottura e un’azione forte, potenzialmente in grado di diffondersi in altre città (mi viene da pensare a Milano) e di far impensierire quel governo conscio del rischio di non avere tutto sotto il suo totale controllo e dunque sicuramente più incline a fare dei passi indietro, non avvenne. Non ci fu quel giorno in cui le condizioni potevano consentirlo, e ovviamente non ci fu dopo, quando i risultati della sconfitta cominciarono a farsi sentire e il declino del movimento era ormai cosa avviata e sempre più chiara.
Si continuò invece a parlare di avvocati, sentenze e altre favole…
Fiducia e speranza in un dialogo
Se lunedì 18 la massa riuscì a essere fermata e bloccata in piazza Unità ciò è ascrivibile anche al fatto che gran parte delle persone, nonostante la rabbia e lo sdegno, continuava a essere animata dalla speranza nel dialogo con le istituzioni, lo Stato e i suoi apparati e da una tuttora esistente fiducia in una loro originaria bontà, venuta meno in quel momento. La stragrande maggioranza dei manifestanti, aldilà delle dichiarazioni formali, non aveva velleità di un grande cambiamento, quanto piuttosto nutriva l’intimo (e comprensibilissimo) desiderio di scampare dallo scenario distopico che veniva sempre più creandosi e di poter tornare alle condizioni precedenti la pandemia, in cui lo Stato era percepito come garante dell’ordine, difensore dei diritti e di quel diffuso e generale benessere di cui oggettivamente (aldilà delle sparate “demagogicheggianti”) la popolazione italiana ha goduto per decenni. Lo Stato, per farla breve, nonostante stesse imponendo una forma di “apartheid 2.0” con una violentissima campagna che ha generato delle cicatrici enormi, godeva (e gode) di una certa fiducia nella stessa popolazione che dal Green Pass e dagli obblighi vaccinali è stata vessata, e che non riusciva ancora a scrostarsi da quella lunga fede “nel sistema” e ad accettare che lo Stato era ormai da ritenersi un nemico.
Questa condizione ha fatto sì che le promesse (per quanto personalmente risultassero già farsesche dall’inizio) di dialoghi con il governo, annunciate nel pomeriggio triestino da persone che si erano attirate la fiducia “popolare” e che probabilmente credevano a ciò che dicevano e agivano in buonafede, alimentassero le speranze dei più e placassero gli animi, facendo prendere tempo prezioso alle autorità che agirono per limitare al massimo i danni e gli effetti (per loro) collaterali dell’intervento di repressione.
Il colpo di grazia: sabato 23 ottobre
In piazza si disse che il sabato seguente a Trieste sarebbero arrivati dei ministri a dialogare con una delegazione di rappresentanti “no green pass”.
Inutile dire che l’incontro fu decisamente uno scherno umiliante, e su questo non intendo dire altro.
L’aspetto “interessante” poteva invece rivelarsi la manifestazione, promessa e annunciata lunedì 18, che avrebbe dovuto svolgersi nella città giuliana per accogliere la delegazione ministeriale.
Dati i fatti accaduti, una mole considerevole di persone sarebbe confluita in città, anche perché molte persone che erano venute a Trieste da altre regioni avevano deciso di fermarsi e attendere tale evento, per pretendere un riscontro serio e concreto dai ministri e dal governo.
Ebbene proprio siccome ministri e governo non avevano nulla da dire e non intendevano trattare, lo scenario di avere una città, che in quelle settimane fu minuziosamente fortificata e presidiata h24 da gendarmi e opliti della Celere, piena di gente incazzata e presa in giro per l’ennesima volta non era idilliaco da gestire (per i tutori dell’ordine s’intende). Si poteva far saltare l’incontro, ma la manifestazione sarebbe rimasta e sarebbe potuto essere un potenziale problema, dunque per prefetto e governo la soluzione ideale sarebbe stata sicuramente far saltare la manifestazione.
E infatti la manifestazione non ci fu… e non furono né il prefetto né la questura, formalmente, a impedirla. Su questo non dico altro se non che, a mio avviso, quello fu il colpo di grazia.
Delega delle proprie responsabilità e potenzialità
Prima di concludere mi lancio in alcune ultime, forse azzardate, speculazioni.
In precedenza ho espresso l’idea che ciò che poteva portare a dei risultati concreti nella nostra lotta era uno “strappo”, un’azione (o reazione) forte che facesse spezzare l’andazzo del movimento no Green Pass (paragonabile a quello di un gregge contrario all’arbitrio del suo pastore, ma mai capace o pronto a metterne direttamente in discussione l’autorità e a uscire dal recinto da egli imposto) e impensierire un governo che dimostrava di non considerare alcuna opposizione o ricorso di natura legale, così come dimostrava di ignorare decine di migliaia di persone che scendevano settimanalmente nelle piazze con grande senso civico, e che dunque poteva essere “toccato” solo da una mobilitazione “di maggiore qualità” e che sapesse affrontare a dovere quella partita a braccio di ferro qual è il rapporto di forza tra potere e popolazione.
Sebbene ciò non sia accaduto penso che, nonostante tutto e nella complessità di tutte le varie dinamiche esistenti, ci fosse in realtà nel subconscio di tutti la consapevolezza che per poter ottenere qualcosa ci volesse un atto forte. Tale profonda consapevolezza però è entrata in contrasto con paure, timori, condizioni materiali e retaggi ideologico-culturali che remavano in senso opposto e ciò che ne è risultato è che collettivamente si è ricorsi, non coscientemente, a delegare la responsabilità e i rischi di intraprendere un’azione di rottura con “l’ordine costituito”, e risolvere la situazione, ad altri o altro.
E’ per questo che, solo per fare degli esempi, per l’intero Paese i portuali di Trieste divennero eroi, sui quali concentrare aspettative e responsabilità; è così che per mesi migliaia di persone si appellavano alle forze dell’ordine e ai militari (ossia quei corpi che per conto e in difesa dello Stato, ne rappresentano la forza fisica e da esso hanno la “licenza” all’uso di tale forza) affinché si rifiutassero di servire la giunta liberticida a capo del Paese e dare così un potentissimo segno di rottura, inutilmente.
E’ sempre seguendo questa tendenza che figure come Trump, Putin, Viganò o altri ancora assurgono a paladini di una consistente fazione del movimento: invece che cercare di rompere la condizione di impotenza in cui ci troviamo, di credere nella nostra forza, nelle nostre capacità e di perseguire, il più possibile, la nostra autonoma autodeterminazione e prenderci il duro impegno di farci carico delle nostre responsabilità e anche dei rischi da esse derivanti, ecco che risulta più facile delegare responsabilità e aspettative a uno o più salvatori, siano essi presidenti di potenze straniere, cardinali piuttosto che avvocati, magistrati, parlamentari, governatori, sindaci o politicanti vari del momento. Figure che poi sistematicamente, chi in buona e chi in malafede, finiscono per gettare via la loro maschera da deus ex machina del popolo.
Ebbene a mio avviso dobbiamo cercare invece, per quanto sia difficile, di rompere quest’inerzia e ricercare la nostra autodeterminazione, di darci una coscienza che sia nostra, di realizzare la portata del nostro potenziale e della nostra forza, di avervi fiducia e di cessare di delegare quelle responsabilità e quei doveri, con tutti i rischi del caso, che devono e non possono che essere nostri.
Conclusione
Per quanto mi sia sforzato di descrivere e mettere in luce gli aspetti per me più importanti e critici di quel decisivo momento della lotta al Green Pass sono consapevole che il quadro da me dato è sicuramente parziale e semplificato, e inoltre so che le mie posizioni potrebbero non trovare il favore di molti. Sia chiaro che le tesi da me espresse sono naturalmente frutto di una visione personale e non intendo farle passare come verità assoluta.
Come scritto in apertura ho ritenuto opportuno però mettere per iscritto quelle che a mio avviso sono le cause principali del fallimento della mobilitazione del porto come della sconfitta e dell’insuccesso del movimento spontaneo nato nel luglio 2021 in risposta all’introduzione sempre più capillare dell’uso del certificato Covid europeo. Ho fatto ciò per dare una prospettiva, in un momento in cui appunto considero essenziale, nell’ottica di una maturazione, analizzare e riflettere ciò che è accaduto e confrontarsi.
In tal senso sarò lieto di trovare e imbattermi in altre prospettive e visioni, anche divergenti dalle mie, e per questo invito chi lo potesse a dare testimonianza della propria visione o delle proprie esperienze.