di MARCO ALESSANDRO UNICI
Tra gli sport che meglio permettono di dare sfogo a un certo impulso guerresco c’è sicuramente il calcio. E, sulla falsariga dei due conflitti che interessarono l’intero globo, l’appuntamento dei Mondiali è l’occasione per esplicitarlo e salire sul tetto del mondo, almeno per i quattro anni successivi alla vittoria. In questo Mondiale 2022 poi una forbice ideologica, quasi a delineare due schieramenti, si è affermata e allargata: se da una parte il meticciato francese e l’outsider marocchino erano icone per l’universo woke, i più conservatori, per così dire, avevano dalla loro gli dèi del calcio argentino e la corazzata croata.
Ma, al di là degli schieramenti, è bene riflettere proprio su quella natura guerresca del calcio: esso, infatti, rappresenta una delle tante valvole di sfogo dello spirito combattivo dell’uomo, insieme ad altri sport, come il rugby, ma anche alla musica. Vi è però un elemento in più che caratterizza il calcio in questo senso, ed è la sua portata globale: la stragrande maggioranza della popolazione ama o segue il calcio anche solo per divertimento, per stare in compagnia dei propri amici, per avere insomma un momento di leggerezza che al contempo solleciti l’adrenalina. Questo fattore dona al calcio un quid in più che, unitamente al suo respiro internazionale, lo porta a travalicare i confini del campo da gioco.
Ormai è indubbio che il calcio sia uno strumento della politica. Sono numerosi i casi in cui, durante i 90 minuti, non c’era solo la partita in ballo ma anche la rivalsa per l’intero Paese di cui si vestiva la maglia: si pensi all’eclatante caso del Mondiale del 1986, in cui, nella partita fra Argentina e Inghilterra, il passaggio del turno era anche sinonimo per gli argentini di rivincita per la sconfitta nella guerra delle Falkland (o Malvine), quattro anni prima. Il tripudio venne poi quando Diego Armando Maradona alzò la coppa nella finale contro la Germania Ovest (avendo trascinato praticamente da solo l’Argentina alla vittoria). E certamente non mancano anche oggi tali sentimenti: guardando al caso della partita tra Spagna e Marocco, in molti hanno dipinto il successo degli ultimi come uno smacco agli iberici circa la questione di Ceuta e Melilla, exclave spagnole sul territorio marocchino.
Insomma, il calcio è, potremmo dire da tempo, arena per gli scontri politici (se non addirittura ideologici), almeno da quando la guerra è interdetta dalla pax atomica. È certamente vero che costituisce un narcotico per le popolazioni che, sotto l’oppressione dell’egemone globale statunitense, sono costrette a una pace coatta (tanto che chi risveglia le coscienze con un attacco diretto al regime unipolare USA, come la Russia, viene escluso dal gioco); è altrettanto vero che, con l’aumento esponenziale della sua rilevanza tra il pubblico, il calcio non viene più considerato solo uno sport, ma un mezzo al pari di quella che fu la guerra (si vuole riprendere qui la celebre frase di von Clausewitz: “la guerra è continuazione della politica con altri mezzi”).
Questo è specialmente il caso dell’Europa, la quale, non potendo più battersi sul campo di battaglia, trasferisce questi “confronti” sul rettangolo di gioco. Non è un caso che le nazioni del Vecchio Continente raffigurino ogni gara secondo modelli presi dalla loro storia (tutti ricordiamo l’esortazione scozzese verso i nostri Azzurri a battere gli inglesi nella finale dello scorso Europeo, ma ci sarebbero mille altri esempi). Le altre nazioni, similmente, riversano sugli incontri quel sentimento che non può esplicarsi tramite un conflitto in armi, stavolta però sotto forma di vendetta per le ingiustizie subite dai Paesi più potenti.
Forse l’elemento che ha sancito questa modalità di scontro è il fatto che il calcio è caricato di un’aura sacra. Tale sport, il più semplice da comprendere e anche da riprodurre nel proprio cortile di casa, ha una vera e propria liturgia: non solo i Mondiali, che si svolgono regolarmente ogni quattro anni, ma anche le varie competizioni per continente (Europeo, Copa América, Coppa d’Africa eccetera), i Mondiali per club, i tornei continentali per club e quelli nazionali. Ognuno con una cadenza quadriennale o annuale, che scandiscono il tempo in cui la comunità calcistica si ritrova per celebrare i vari eventi. E in più tutti i suoi idoli, dalla stella nascente al campione, che fungono quasi da santi, modelli da imitare per i loro comportamenti dentro e fuori dal campo. Senza contare tutto il pathos con il quale si racconta ogni partita, ovvero ogni solenne cerimonia di questa religione.
Sia ben chiaro, quest’aura sacra è ciò che ha incatenato le persone in una visione in cui il calcio è visto in maniera totalizzante, che arriva persino a trasformare i loro stili di vita e comportamenti. È una di quelle armi di distrazione di massa che il potere usa per placare la rabbia provocata dal suo stesso sistema di controllo. Tuttavia sembrano esserne colpiti anche i governi medesimi, poiché spesso li abbiamo visti colorare una vittoria della propria nazione con tinte ideologiche. Si pensi alla Francia e all’Italia: nel 2018, il successo francese ai Mondiali pareva fosse merito del carattere multietnico della squadra. Nel 2021, invece, la vittoria degli Azzurri sembrò strizzare l’occhio al clima politico instaurato da “SuperMario”. Si tratta, naturalmente, di cose di poco conto, dato che qualunque governo sa quali sono le sfide reali che deve affrontare. E però, a quanto pare, riassume il loro atteggiamento con un’espressione, “tutto fa brodo”.
Comunque sia, i Mondiali incarnano una sorta di guerra “santa”, una guerra che ogni nazione combatte secondo precise regole e con un afflato spirituale molto profondo, consapevole di incarnare, secondo la sua ottica storica, un ideale di calcio (e questo lo si può comprendere bene: i brasiliani non giocano lo stesso calcio dei tedeschi). Una guerra alla quale ogni cittadino dà il proprio contributo, anche coloro che normalmente non si interessano di calcio, per arrivare a un prestigio di cui potersi fregiare dinanzi al mondo.