L’abbandono di Kherson: il fallimento ideologico della strategia di Putin in Ucraina

di NILO VLAS

La sera di mercoledì 9 novembre il Ministero della Difesa russo annuncia il ritiro dalla città di Kherson e da tutti i territori controllati sulla riva destra dello Dnepr. La possibilità del ritiro oltre la barriera naturale del fiume aleggiava nell’aria da parecchio tempo, ma il suo annuncio ufficiale è stato ugualmente spiazzante. Non poteva essere altrimenti, considerando che la sconfitta politico-ideologica che esso comporta per la Russia non è meno grave della sconfitta militare.

Le ragioni profonde sia dell’una che dell’altra sono troppo complesse per essere oggetto di un unico articolo. Di seguito quindi mi occuperò soltanto dell’aspetto politico della faccenda, mentre il piano militare verrà illustrato in seguito.

Dunque, perché il ritiro da Kherson rischia di comportare per la Russia conseguenze politiche ben più gravi di quelle militari?

Il valore simbolico di Kherson

La città di Kherson, capoluogo dell’omonima regione, fu conquistata nei primi giorni dell’offensiva russa, alla fine di febbraio. Le truppe russe presero il controllo della città quasi senza colpo ferire: le difese ucraine in questo settore si erano rivelate molto deboli, e l’esercito di Kiev, presente già in numeri scarsi, si ritirò senza opporre resistenza. La regione di Kherson venne liberata in brevissimo tempo, diventando il fronte più dinamico dell’avanzata delle forze russe.

Ciò significa che la città uscì completamente indenne dalla conquista. In tempi piuttosto rapidi, e soprattutto dopo l’istituzione dell’amministrazione civile-militare, la vita tornò a una relativa normalità. La grivna veniva progressivamente sostituita con il rublo nelle transazioni quotidiane, e la Russia provvedeva all’erogazione di stipendi e pensioni. Tutto sembrava indicare una pacifica transizione di Kherson e dintorni dall’Ucraina alla sua patria storica, la Russia.

Dopo alcune manifestazioni poco numerose e poco convinte di filo ucraini, disperse senza troppe difficoltà, anche sul piano sociale la situazione in città tornò sostanzialmente tranquilla. La maggior parte della popolazione collaborava con l’amministrazione civile-militare, e la sua fiducia nelle nuove istituzioni cresceva man mano che la Russia pareva consolidarsi sul territorio. Non secondario era ovviamente il fatto che Kherson è una regione linguisticamente e culturalmente russa, con poco a che spartire con le regioni occidentali dell’Ucraina, la cui cultura fornisce la base ideologica e identitaria dell’Ucraina post-sovietica. Il risultato del referendum di unificazione con la Federazione Russa, tenutosi alla fine di settembre, è stato abbastanza eloquente riguardo ai sentimenti della popolazione locale.

Infine, Kherson era la città politicamente più importante conquistata dalla Russia nel corso di questa guerra: si trattava infatti dell’unico capoluogo di regione passato sotto il suo controllo. Nonostante nelle prime settimane di guerra l’esercito russo si fosse spinto fin sulle periferie di Kar’kov, Sumy, Chernigov e persino Kiev, nei mesi successivi ha dovuto abbandonare tutte queste regioni.

Insomma, Kherson non solo era la viva dimostrazione che un passaggio pacifico e indolore di un territorio ucraino sotto la Federazione Russa fosse possibile, ma era anche il centro urbano più grande e importante che all’inizio di novembre 2022 rimaneva sotto il suo controllo.

Per l’Ucraina questo esempio andava eliminato ad ogni costo: se possibile riconquistato, altrimenti distrutto.

Ironia della sorte, anche l’esercito ucraino ha fatto ingresso a Kherson senza trovare resistenza. Ma questa volta la città è perlopiù deserta.

Obbiettivi raggiunti: zero

La perdita di Kherson, oltre a sottolineare il generale trend negativo dell’Operazione militare speciale degli ultimi mesi, che vede i russi ritirarsi da molti più territori di quanti, a fatica, ne conquistino, evidenzia anche che tutti i suoi obbiettivi politici inizialmente dichiarati non sono stati raggiunti. Analizziamoli uno per uno.

Nel suo discorso alla nazione, in quel fatidico e pare ormai lontano 24 febbraio, per prima cosa Putin aveva enunciato la liberazione e la difesa del popolo del Donbass. Che cosa vediamo oggi, al nono mese di guerra? Vediamo che ampie porzioni del Donbass sono effettivamente state liberate: tutta la Repubblica Popolare di Lugansk, e ampie porzioni di quella di Donetsk, in particolare la città-simbolo di Mariupol’. E tuttavia l’obbiettivo non è raggiunto: l’esercito ucraino controlla ancora oltre il 40% del territorio della Repubblica di Donetsk. Nei pressi della stessa Donetsk, il fronte è cambiato poco: il regime di Kiev controlla ancora Avdeevka, un sobborgo della città, da dove bersaglia incessantemente i quartieri civili. I morti tra la popolazione civile si contano quasi quotidianamente. Le truppe ucraine si difendono su posizioni pesantemente fortificate durante gli otto anni di sterili trattative nella cornice degli accordi di Minsk: bunker, trincee e casematte di cemento armato. Avanzare contro queste fortificazioni ha sempre portato per i russi scarsi risultati e ingenti perdite, in una sorta di reenactment di Verdun nel 1916. Aggirare questa regione per accerchiarla si è pure rivelato finora impossibile, visto il sostanziale stallo sugli altri versanti del fronte del Donbass. Insomma, siamo al nono mese di guerra, e i nazisti ancora stanno uccidendo i civili a Donetsk e distruggendo le sue infrastrutture. Ottima “difesa”, non c’è che dire.

L’obbiettivo della “denazificazione” risultava sin da subito il più ambiguo: cosa intendeva Putin con questa parola? Voleva dire che il regime di Zelensky, colluso con i neonazisti ucraini, andasse distrutto e sostituito, oppure il presidente russo si sarebbe accontentato di una solenne promessa da parte di Kiev di rinnegare il nazismo e mettere fuori legge i paramilitari di estrema destra? Qualunque fosse il significato di “denazificazione”, essa appare ancora lontanissima. Zelensky non ci pensa nemmeno a rinnegare i suoi alleati nazisti. I battaglioni come Azov sono la spina dorsale dell’esercito, il che si manifesta negli innumerevoli crimini di guerra che commettono, tra la compiaciuta approvazione dei loro sostenitori in patria e l’ostentata indifferenza dell’Occidente. Non solo: se è proprio sotto questa ideologia che l’esercito ucraino dimostra di riuscire a tenere testa alla Russia, è naturale che proprio essa diventi il baluardo ideologico dell’Ucraina indipendente. Indirettamente ciò sta portando alla normalizzazione del nazismo anche in Europa: abbiamo scoperto che esistono nazisti cattivi e nazisti buoni (o sarebbe meglio dire “kantisti”?). I nazisti buoni sono quelli che servono gli interessi geopolitici del blocco atlantico. Insomma, se Putin voleva “denazificare” l’Ucraina, fino ad ora ha ottenuto il risultato opposto.

La stessa cosa si può dire della “demilitarizzazione”, siccome l’esercito di Kiev è palesemente più forte adesso di quanto non lo fosse a febbraio. Diverse ondate di mobilitazione hanno permesso a Kiev di addestrare, nel corso dei mesi, centinaia di migliaia di nuovi soldati. Il loro dispiegamento sul fronte negli ultimi due mesi ha significativamente cambiato il rapporto di forze sul campo, e determinato un sostanziale arretramento delle posizioni russe. Ciò avveniva mentre dalla Russia nel corso di tutta l’estate giungevano strane dichiarazioni sulla falsariga di “non abbiamo ancora iniziato a fare sul serio” e “non abbiamo fretta”.

Grazie ai rifornimenti della NATO, che spesso rappresentano modelli all’avanguardia, l’Ucraina riesce a rimpiazzare rapidamente le perdite in armamenti. Insomma, l’esercito ucraino non solo è cresciuto di numero, ma si sta anche modernizzando.

Che dire invece dello status neutrale dell’Ucraina e della rinuncia all’ingresso nel Patto Atlantico? Per costringere alla neutralità qualcuno che non la vuole, bisogna essere in grado di imporgliela. Se la Russia non ci è riuscita fino a questo momento, tanto meno ci riuscirà adesso, dopo aver abbandonato l’unica capitale regionale che controllava.

Insomma, non solo nessuno degli obbiettivi dichiarati all’inizio dell’Operazione militare speciale è stato raggiunto, ma tutti appaiono più lontani adesso di quanto non lo fossero a febbraio. Se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi (per citare von Clausewitz), il mancato raggiungimento degli obbiettivi dell’Operazione Militare Speciale appare come un problema politico ancor prima che militare.

L’incapacità del Cremlino di raggiungere gli obbiettivi che esso stesso si è posto inevitabilmente mette in discussione il prestigio della Federazione Russa sull’arena internazionale, irrita i suoi alleati e dissuade i paesi neutrali da una potenziale alleanza. Si tratta, in estrema sintesi, di una chiara dimostrazione di debolezza. E mostrare al mondo la propria debolezza è molto più grave della sconfitta militare in sé.

La disillusione dei filorussi

La giustificazione morale dell’intervento in Ucraina è sempre stata chiara: difendere i russi in Ucraina dalla pulizia etnica del regime di Kiev. In Occidente, parlando di “filorussi” in Ucraina, si intende di solito la Crimea e il Donbass. In realtà, dopo il colpo di Stato dell’Euromaidan nel 2014, il popolo si sollevò in tutta l’Ucraina russofona, che semplificando ai massimi termini è costituita dalle regioni a est dello Dnepr e dalla costa del Mar Nero. La Crimea e il Donbass sono ricordati perché grazie all’aiuto russo (nel primo caso diretto, nel secondo indiretto) sono le uniche regioni che sono riuscite a tenere testa al regime golpista. Nel resto del paese le sollevazioni furono represse nel sangue dallo squadrismo di estrema destra: le stesse squadre che oggi vediamo integrate nell’esercito ucraino sventolando senza pudore croci uncinate. La Casa dei Sindacati di Odessa è il caso più noto, ma niente affatto isolato. Il popolo sceso in piazza contro il colpo di Stato si aspettava l’aiuto della Russia, che però non arrivò mai.

La fiducia dei russofoni verso la Federazione russa ricevette un duro colpo già allora. Il Cremlino già nel 2014 aveva tutte le carte in regola per intervenire boots on the ground: il governo provvisorio a Kiev era autoplocramato e in forte deficit di legittimità internazionale, mentre il legittimo presidente Viktor Yanukovich era fuggito in Russia e aveva chiesto l’intervento delle sue forze armate. Lo stesso esercito ucraino era debole e disorientato, non sapendo a chi dovesse rispondere: ai golpisti di Kiev o al fuggitivo Yanukovich? Con una leggera pressione avrebbe deposto le armi. All’epoca fior fior di specialisti si sprecarono per dimostrare quanto la decisione di Putin di non intervenire fosse saggia e lungimirante. Oggi tutti sono costretti a constatare che si è trattato di un errore strategico catastrofico, che è già costato la vita a decine di migliaia di civili e soldati di ambo le parti, e che ha scaraventato l’Ucraina in una guerra di cui non si vede la fine e che rischia di trasformarsi per la Russia in una dolente sconfitta politica e militare.

Vale anche la pena di ricordare che secondo gli accordi di Minsk persino Donetsk e Lugansk sarebbero dovuti tornare sotto il controllo di Kiev, sebbene con un vago “status di autonomia”. Oggi si incolpa l’Ucraina di non aver rispettato gli accordi di Minsk, ma si ignora (o si dimentica) che i primi a non volerli rispettare erano le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, perché la conclusione di questo processo di pace le avrebbe costrette a riconoscere la sovranità dello stesso regime contro cui si erano ribellate in partenza.

Inoltre non ci voleva certo un indovino per prevedere che il governo di Kiev, una marionetta in mano a Washington, avrebbe solo simulato il proprio impegno nelle trattative, che vedeva utili solo per guadagnare tempo e prepararsi alla guerra contro la Russia (cosa che l’ex presidente Petro Poroshenko ha più volte esplicitamente ammesso). Come risultato, Putin ha solo rimandato il conflitto di otto anni, a condizioni per lui di gran lunga più sfavorevoli.

All’indomani dell’Accordo di Monaco, dove Francia e Gran Bretagna abbandonarono la Cecoslovacchia in pasto a Hitler, nella miope speranza di mantenere la pace in Europa, Churchill pronunciò, riferendosi a francesi e britannici, una frase immortale: “Potevano scegliere tra il disonore e la guerra: hanno scelto il disonore, e avranno la guerra.” Questa citazione descrive perfettamente l’errore strategico commesso dal Cremlino otto anni fa.

Diretto risultato di questo errore è stata la sfiducia dei filorussi, che si sono sentiti abbandonati dalla Russia in pasto al nazionalismo ucraino. Quando nel febbraio 2022 le colonne militari russe si addentrarono in territorio ucraino, più di qualcuno al Cremlino si stupì della tiepida accoglienza da parte della popolazione locale.

Il dubbio della gente era peraltro comprensibile: “se i soldati russi se ne andranno, e il tutto si conclude con nuovi accordi di Minsk, noi rimaniamo di nuovo a tu per tu con i nazisti.” Timori rivelatisi giustificati, visto che dopo le dirompenti conquiste delle prime settimane di guerra, nel corso dei mesi l’esercito russo ha abbandonato interamente le regioni di Kiev, Chernigov, Sumy e Khar’kov. Ovunque fossero tornati gli ucraini, la popolazione locale è stata sottoposta a brutali rappresaglie, tacciata di collaborazionismo anche solo per aver accettato le provviste di cibo offerte dagli “occupanti”.

È anche per rassicurare la popolazione locale che le regioni di Donetsk, Lugansk, Zaporoshie e Kherson sono state giuridicamente annesse alla Federazione Russa, all’inizio di ottobre. Ciò doveva dimostrare la volontà di rimanere su questi territori e difenderli. I risultati dei referendum diedero fiducia al governo russo. Fiducia prontamente tradita nemmeno due mesi dopo, con l’abbandono di Kherson.

Non so dire se la ritirata dalla riva destra dello Dnepr è stata una mossa politica o una necessità militare. Le opinioni degli analisti divergono notevolmente al riguardo, e le argomentazioni a sostegno dell’una o dell’altra ipotesi mi paiono ugualmente fondate.

Ma il dato di fatto resta immutato: la sconfitta ideologica è catastrofica. La Russia, per l’ennesima volta, non è stata in grado di difendere coloro a cui aveva promesso la sua protezione. Certo, la maggior parte della popolazione di Kherson è stata evacuata, ma pare improbabile che i cittadini avessero in mente il destino di profughi quando votarono per l’unione con la Russia. E non tutti sono riusciti a scappare: anziani, invalidi e chiunque altro non avesse la possibilità di raggiungere i punti di evacuazione, sono rimasti oltre lo Dnepr, nelle mani dei nazisti. Molto prevedibilmente, in questi giorni giungono i video delle rappresaglie.

Questo oggi è il dramma dei russi d’Ucraina. Essi odiano la dittatura di Kiev, ma chiunque abbia scelto la Russia ora si trova sotto le bombe come a Donetsk, profugo come gli abitanti di Kherson, oppure, nel peggiore dei casi, in una fossa comune come a Bucha e Kupyansk, peraltro con la beffa post mortem di essere esibito ai giornalisti occidentali come vittima dei russi. Chi dopo tutto questo sarà ancora disposto a fidarsi di Putin?

Di riflesso, per Kiev è fondamentale dimostrare quanto sia brutto il destino di chi ha tradito l’Ucraina. Le uniche città conquistate dai russi devono avere l’aspetto di Mariupol’, rasa al suolo dai combattimenti e violata nello spirito dalle efferatezze dei battaglioni nazisti. L’arrivo dei russi deve essere percepito ovunque come un cataclisma, non come una liberazione.

L’alienazione della società russa

Di recente sono tornato da un viaggio a San Pietroburgo. La città, che visito quasi ogni anno, questa volta mi ha lasciato un’impressione molto pesante. Essa ostenta la propria indifferenza verso ciò che sta accadendo in Ucraina, come se la guerra lì combattuta non la riguardi minimamente. Mi sarei aspettato le vie tappezzate di manifesti a sostegno delle truppe, ma le ho trovate come sempre ricoperte dalle solite vomitevoli pubblicità delle grandi marche. I rari manifesti patriottici si nascondono nei non luoghi periferici, laddove lo spazio pubblicitario costa poco e non giungono gli sguardi dei benpensanti pacifisti. Altrettanto difficile è stato trovare un negozio che vendesse magliette con la Z. La città continua la sua vita frenetica tra negozi e ristoranti: occhio non vede, cuore non duole.

Questo è il risultato dell’impostazione che il Cremlino ha dato alla guerra nel suo rapporto con la società. Essa è evidente sin dal nome stesso di “Operazione militare speciale”, la cui “specialità” sottolinea la sua dimensione “privata” e “professionale”, non popolare. Si è cercato di far passare la guerra come un affare “di Stato”, in cui il cittadino non doveva immischiarsi, libero di proseguire tranquillamente con la sua vita di sempre. I professionisti avrebbero compiuto il loro lavoro in Ucraina e sarebbero tornati vittoriosi. Il Ministero della Difesa ha continuato a rinforzare questo concetto per tutta l’estate, affermando che l’Operazione militare speciale “procede secondo i piani”. Poi, all’inizio di settembre, lo sfondamento ucraino a Balakleya dimostra a tutti che ogni piano è andato a ramengo. I professionisti non ce l’hanno fatta, ed ora tocca alla gente comune, nell’ambito della mobilitazione parziale, riparare agli errori strategici dei generali.

Proprio la mobilitazione parziale giunge come un fulmine a ciel sereno, dopo mesi in cui le autorità giuravano che tutto fosse sotto controllo. Solo adesso dunque la Russia inizia a mobilitare la sua popolazione e la sua economia per far fronte allo sforzo bellico. Il nemico infatti non è solo l’Ucraina, ma le forze congiunte dell’Occidente imperialista. Tutto ciò non è affatto semplice: la società si rende conto che la propaganda ufficiale ha rifilato a tutti una montagna di balle, e che ora cerca di coinvolgere il popolo in un affare che fino a questo momento era stato trattato alla stregua di una questione privata. Ancora una volta si pone la domanda: chi si fiderà adesso di Putin? Non era forse meglio essere chiari sin dall’inizio che la guerra riguarda tutti e che tutti devono fare la loro parte? Andava spiegato sin da subito che questa non è un’operazione militare speciale di Putin contro Zelensky, ma una GUERRA di civiltà che l’Occidente ha mosso contro la Russia e che coinvolge tutti i russi, che lo vogliano o meno.

Ci troviamo di fronte a un ennesimo disastro ideologico dalle gravi conseguenze. Se una parte consistente della popolazione continuerà a credere che la guerra non è affar suo, non c’è modo in cui la Russia possa vincere. Purtroppo, è quello che ho visto a San Pietroburgo.

Per fare un paragone, nella vicina Helsinki su ogni palazzo di qualche importanza sventola una bandiera ucraina. Insomma, in Finlandia, che non è nemmeno una parte del conflitto, l’arena pubblica prende una posizione ben più decisa di quanto non lo faccia San Pietroburgo, la capitale culturale della Russia.

Conclusioni

L’abbandono di Kherson dimostra l’attuale incapacità della dirigenza russa di portare a termine gli obbiettivi politici preposti all’intervento militare. Esso discredita anche la giustificazione morale di tale intervento, ossia la difesa dei russofoni in Ucraina. Ne esce danneggiata pure la fiducia degli stessi russi verso il proprio governo. Dopo mesi di ritirate a fronte di avanzamenti irrilevanti, diventa sempre più difficile credere che sia tutto parte di un piano geniale del presidente, come molti hanno continuato a ripetere fino all’altro ieri.

Teoricamente non è ancora troppo tardi per riparare a molti degli errori descritti in questo articolo, ma in pratica crescono i dubbi che al Cremlino resti la volontà politica di farlo, viste le voci sempre più frequenti su un possibile negoziato. Una pace ottenuta attraverso le trattative, e non da chiari risultati sul campo di battaglia, sarebbe solo temporanea e farebbe la fine dei defunti accordi di Minsk: una cortina di fumo per dare all’Ucraina il tempo di riprendersi. Inoltre apparirebbe per i russi come una vittoria di Pirro: tanti sacrifici per così pochi risultati?

La brutta notizia è che la posta in gioco è quanto mai alta, e qualsiasi cosa succeda sul fronte ucraino influenzerà anche il resto mondo.

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