Il viaggio nel silenzio – parte 2

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L’IMPORTANZA DI ΑΝΑΠΑΡΆΣΤΑΣΗ (RICOSTRUZIONE DI UN DELITTO) NELLA STORIA GRECA

L’articolo precedente voleva dimostrare che fosse possibile mettere in pratica delle forme di resistenza culturale anche nelle situazioni politiche più tragiche, portando come esempio la cinematografia di Thodoros (detto Theo) Angelopoulos, un regista che negli anni della dittatura della Giunta dei colonnelli era riuscito a far proiettare pellicole fortemente critiche nei confronti del regime. In questo testo ci si soffermerà sull’analisi del primo film di questo autore, e in particolare sulle tecniche messe in atto per aggirare la censura. Questa analisi è dettata per lo più da opinioni personali dell’autore, anche se faranno forte affidamento sugli articoli pubblicati sulla rivista Σύγχρονος Κινηματογράφος (Synchronos Kinimatogràfos, Cinema Contemporaneo) nel periodo antecedente e successivo la proiezione del film.

Si era rimasti alle invettive rivolte nel 1969 dagli autori del Nuovo Cinema Greco sulla rivista Σύγχρονος Κινηματογράφος (Cinema Contemporaneo) nei confronti della direzione del Festival del Cinema di Salonicco, la rassegna più importante della Grecia. Gli organizzatori, si ricorderà, erano rei di essere ormai asserviti alle grandi case di produzione le quali puntavano su un cinema di tipo commerciale rinunciando agli aspetti culturale e artistico in favore di un’immagine edulcorata della Terra Ellenica. Il non-detto era la collusione evidente tra tale direzione e il regime dei colonnelli che imperversava in quegli anni, il quale voleva piegare la rassegna e il mondo del cinema alla propria propaganda, presentando un Paese abitato da persone gioiose e sempre baciato dal sole.

La critica principale che emergeva da queste pagine era l’incapacità del Festival di selezionare e promuovere un cinema inteso come forma d’arte. A tal proposito va sottolineato che a partire dal 1968 la frequentazione dei cinema subiva un forte calo, nonostante gli sforzi compiuti sia da parte di questo gruppo di registi dissidenti, sia da parte delle case di produzione. Questa tendenza proseguì inesorabilmente fino alla metà degli anni ’70. In molti hanno ricondotto questo calo di interesse nei confronti del cinema con l’introduzione della televisione in Grecia, avvenuta in quello stesso 1969. Va sottolineato, però, come le date combacino con il periodo della dittatura, sintomo del vero clima che si poteva respirare in quegli anni in questo Paese.

Nello stesso numero in cui venne pubblicato l’articolo di denuncia del Festival di Salonicco, compariva un’intervista del direttore della rivista Vassìlis Rafailìdis al critico e regista Thòdoros (detto Theo) Angelopoulos, intitolata Πορεία προς το αβέβαιο μέλλον (Marcia verso un futuro incerto). Entrambi erano tra i fondatori e collaboratori di Σύγχρονος Κινηματογράφος (Cinema Contemporaneo) ed entrambi avevano già avuto esperienze dietro la macchina da presa, Rafailìdis come autore di due documentari, mentre Angelopoulos era riuscito a proiettare fino a quel momento un solo cortometraggio, Η Εκπομπή (I Ekpombì, La trasmissione) del 1968.

Il nostro viaggio nelle forme di dissidenza culturale ricomincia da questa intervista, poiché Angelopoulos si stava occupando in quel periodo delle riprese del suo primo lungometraggio, Αναπαράσταση (Αnaparàstasi, Ricostruzione di un delitto), della quale discusse con lo stesso Rafailìdis e che rappresentò il punto di partenza non solo della sua carriera di regista, ma soprattutto di tutto il movimento del Nuovo Cinema Greco. In questa conversazione ci fu un’introduzione al nuovo lavoro di Angelopoulos, ma vennero anche date le linee guida di Σύγχρονος Κινηματογράφος (Cinema Contemporaneo), una rivista concepita come un mezzo per insegnare al pubblico cosa fosse il cinema d’arte. Angelopoulos stesso infatti affermò: “Noi ci battiamo per un cinema che faccia cultura, e questo ci interessa. Non eliminiamo nessuno. Ognuno fa il suo lavoro, con la differenza che, quando quel tipo di cinema ha la pretesa di influenzare di diritto la dimensione spirituale del Greco, allora deve essere in grado di colpire nel segno, ovviamente.” A ciò aggiunse: “Tutti questi registi greci hanno l’ingenuità di credere di portare qualcosa di importante al cinema greco, ma in realtà portano solo la vastità della loro ignoranza.” Frasi dure, che facevano trapelare la pretesa di superiorità di un autore che fino a quel momento non aveva dato prova del suo valore, ma che aveva compiuto i suoi studi in Francia invece che in Grecia, e che nel tempo avrebbe raggiunto la fama di grande artista.

La loro scure si abbatté poi sui produttori, che secondo loro da un lato “non credono che il cinema greco possa diventare internazionale” e dall’altro avevano “la convinzione che manchi un’organizzazione internazionale il cui compito sia calcolare i possibili introiti all’estero”, oltre alla mancanza di volontà di compiere dei validi investimenti. Ma tale critica veniva ampliata a tutti gli addetti ai lavori, soprattutto perché “vengono scelte le persone sbagliate il più delle volte, persone con un certo nome, ma che sono fuori dal mondo del cinema”.

Il quadro che ne usciva era dunque desolante, di un mondo cinematografico formato da personaggi inadatti e ignoranti, totalmente privi di lungimiranza e di interesse verso la cultura, con la speculazione come unico obiettivo. L’intenzione degli autori della rivista era invece quella di porre in essere un nuovo sistema, formare un’avanguardia culturale capace di proporre un approccio artistico e culturale al cinema, e non lasciare che tali risultati fossero estemporanei e “risultato di tentativi personali che esulano dalla routine”, come affermava lo stesso Angelopoulos nell’intervista.

Anche in questo caso, però, il convitato di pietra era il governo della Giunta dei Colonnelli, che aveva pieno controllo sulla propaganda e sulla pubblicazione cinematografica greca e operava un lavoro sistematico di censura di tutti i contenuti che dovevano essere proiettati. Oltre a ciò essa nominava la direzione del Festival di Salonicco, controllava le nomine a capo delle case di produzione e molto altro ancora. Tutta l’intervista riportata precedentemente assume connotati ben diversi, se viene calata nel contesto di una dittatura in cui era impossibile esprimere alcuna voce al di fuori del coro, salvo rischiare di essere internati in campi di detenzione per prigionieri politici ed essere sottoposti a torture di vario tipo. Gli esempi più famosi in ambito artistico sono quelli del poeta Alèkos Panagoulis (la cui esperienza venne raccolta dalla sua compagna Oriana Fallaci nel libro Un Uomo) e del grande compositore Mikis Theodorakis, che subirono gravi ripercussioni per la loro opposizione al regime dittatoriale.

Ciò non fu il destino degli autori di questo movimento, poiché furono capaci di muovere delle critiche molto dure nei confronti dell’industria cinematografica e in un certo modo anche verso il governo, senza mai fare alcun riferimento palese alla Giunta dei colonnelli, men che meno sotto forma di accusa. Ma ciò non significa che questo tipo di allusione non fosse presente in forma occulta in questi testi. Esso compare con la forma di un termine particolare: πρόβλημα (problema). Per esprimere critiche verso la dittatura gli autori escogitarono un trucco con il quale aggirare gli organi di censura: applicarono una particolare forma di autocensura, ovvero parlavano di un problema che affliggeva il paese, la cultura e che influenzava la società, ma non esprimevano mai chiaramente quale fosse questo problema.

Non è noto con certezza se questo escamotage dell’autocensura sia stato architettato proprio da Theo Angelopoulos, ma nell’intervista appena analizzata, il regista alludeva a una tecnica particolare che avrebbe adottato nel suo film, ovvero quella di sottrarre. In questo modo egli non esprimeva nettamente un proprio giudizio, non lo rendeva palese, e di conseguenza il film non poteva essere censurato. Ciò che egli faceva era dare gli elementi per permettere agli spettatori di compiere un’analisi personale del film. L’intenzione non era quella di presentare gli avvenimenti narrandoli attraverso una lente propria, ma al contrario il regista cercò sempre di ispirare una riflessione negli altri.

Questo primo film di Theo Angelopoulos venne proiettato nel 1970 e si intitolava Αναπαράσταση (Ricostruzione di un delitto). La trama era molto semplice e scarna: Kostas, un emigrato in Germania, fa ritorno nel proprio decadente villaggio di Tymphèa, nell’Epiro. Qui viene assassinato dalla moglie Eleni e dal suo amante Christos, i quali nascondono il suo corpo in un giardino e cercano di costruirsi inutilmente un alibi, venendo facilmente scoperti e accusati del delitto. Gli inquirenti e i giornalisti arrivati sul posto non saranno però in grado di comprendere chi dei due sia stato l’autore materiale del delitto, non riuscendo a dare una risposta ai quesiti che si accumulano durante lo svolgersi del film.

Αναπαράσταση (Ricostruzione di un delitto) fu considerato un film molto importante per la generazione dei registi del Nuovo Cinema Greco perché affrontò in chiave romanzata alcuni temi sociali molto seri che affliggevano la società greca di quel periodo. Il più rilevante fu quello dell’abbandono delle campagne da parte della popolazione maschile per andare a cercare fortuna in Germania. È questa la strada che aveva intrapreso da anni anche Kòstas Goùsis, il marito di Eleni. Il film si apre proprio con il suo ritorno a Tymphea, un villaggio dell’Epiro che risulta essere un microcosmo che il regista presenta con una frase semplice: nel 1939 gli abitanti erano 1250, nel 1965 erano 85. Si tratta di un luogo dunque ancorato al proprio passato, sopraffatto dalla modernità e incapace di avere una relazione con essa, tanto che gli stessi abitanti del paese avevano già capito che il villaggio non avrebbe avuto futuro, ma sarebbe morto di lì a poco. La maggior parte degli uomini, avendo la possibilità di farlo, abbandonarono il proprio paese di origine per trasferirsi in Germania. E’ questa la terra promessa verso la quale tutti cercano di andare e che ha condannato il paese di Tymphea ad una lenta agonia finché l’ultimo anziano non sarà morto.

Angelopoulos incarica del compito di comprendere le ragioni profonde del degrado della vita rurale le figure dei giornalisti arrivati dalla città; ciò sarà possibile solo ponendo domande agli abitanti del paese. In una delle scene più significative del film, i giornalisti si aggirano per Tymphea intervistando diversi abitanti, e il quadro che ricreano risulta essere molto desolato e desolante. Un uomo afferma che in Germania “la vita è migliore” perché quando era lì “lavoravo otto ore e le altre sedici ero libero”, mentre facendo la vita del pastore “non hai mai pace”; una donna ammette di voler raggiungere il marito perché “Εδώ μαύρισε η καρδιά μας” (letteralmente, “il nostro cuore si è annerito”) per colpa della povertà; un’altra donna invece ammette di essere troppo legata al paese per potersene andare. Ma coloro che sono maggiormente disillusi sono gli anziani, i quali affermano che ormai il villaggio versa in condizioni tragiche a causa della povertà dovuta al fatto che “tutti i bravi uomini se ne vanno”. Essi giungono all’amara conclusione che “se la migrazione non finisce, i villaggi moriranno. Siamo rimasti solo noi anziani, piano piano moriremo tutti e i villaggi resteranno morti. E ciò non sarà un bene per le grandi città”.

Inserendo questa sorta di documentario all’interno di un film giallo, Angelopoulos compie una critica della società, ma soprattutto delle politiche compiute dalla Giunta, mettendo in scena una realtà ormai priva di speranza e ridotta alla mera sopravvivenza, segnata dalla piaga dell’emigrazione e del disinteresse nei confronti delle province. Mancavano le politiche rivolte al ripopolamento della Grecia continentale, e anzi non era posto nessun freno all’emigrazione sia verso altri Paesi sia verso le grandi città, in particolare Atene, che da molto tempo subiva un’espansione incontrollata, continuando ad attrarre uomini della provincia.

In una situazione politica e sociale come quella in cui stava vivendo la Grecia nel 1970, un film che toccasse temi scottanti come l’emigrazione, l’abbandono delle zone rurali, l’ordine sociale prestabilito, ma anche l’adulterio e l’omicidio, fece molto rumore, ma non fu censurato dal governo, poiché essendoci già stata alla fonte una forma di autocensura, nel film non veniva detto nulla in modo diretto. Così facendo poté permettere che la pellicola fosse proiettata non solo nei cinema di tutto il Paese, ma anche al Festival di Salonicco del 1970, dove vinse i premi per Miglior Lungometraggio, Miglior Fotografia in un lungometraggio, Miglior Attrice Non Protagonista, Miglior Regista Emergente e il Premio Della Critica Per Il Miglior Lungometraggio.

Questa autocensura può essere rilevata in forma abbastanza massiccia innanzitutto sotto forma di silenzio. Esso non viene utilizzato solamente come un mezzo per raggiungere uno scopo, ma si fa carico di una forma tematica, superando il semplice significato di omissione, di elemento che rende la drammaticità di un avvenimento (anche se questo aspetto rimane fondamentale nella pellicola); il silenzio assume caratteristiche proprie, permette diversi spunti di riflessione, in un certo senso parla allo spettatore. È in questo modo che si possono distinguere diverse forme di silenzio.

Una di esse si palesa nei personaggi principali del film, come forma di esteriorizzazione di passioni ed emozioni. La forma che assume il silenzio in molti momenti del film è sia quella del senso di colpa sia quella del disagio. A volte il silenzio tra i due protagonisti Eleni e Christos assume una forma quasi assordante; altre volte diventa emblema del senso di colpa e della repulsione che la donna provoca nel pastore.

Ma il silenzio in questo film è anche simbolo dell’omertà. Il magistrato arrivato dalla città deve ricostruire il delitto, ovvero capire quale dei due amanti abbia compiuto l’atto materiale di strangolare Kostas con una corda. Eleni e Christos, dopo essersi incolpati vicendevolmente all’inizio del film, nel momento in cui viene chiesto loro di ricreare la scena del delitto rifiutano di farlo, chiudendosi entrambi nel silenzio. In questo modo, la ricostruzione del delitto rimane avvolta nel mistero perché i due amanti si barricano dietro una barriera di mutismo omertoso.

A tal proposito va collegato a questo aspetto un escamotage tecnico che il regista investe di rilevanza tematica: le porte. In molte occasioni la macchina da presa non si trova nella stessa stanza in cui si trovano Eleni e Christos, ma l’inquadratura avviene attraverso un’apertura (sia essa la cornice di una porta o quella di una finestra), e ciò permette di comprendere che ciò non ha una valenza solo di espediente tecnico fine a se stesso. Il regista sembra voler frapporre una barriera tra i due colpevoli e gli spettatori in modo da non permettere loro di avere un accesso completo alle interiorità dei protagonisti. Sfruttando queste aperture nelle barriere, il regista ci mostra solo una parte della loro personalità, stuzzicando il voyerismo del pubblico. In questo modo la barriera fisica del muro che divide una stanza da un’altra diventa l’analogia della barriera psicologica eretta da Eleni e dall’amante.

Il tema delle porte in questo film era ancora in fase embrionale, non aveva ancora assunto la valenza e l’importanza che ebbe invece nel suo lavoro successivo, Μέρες του ’36 (Mères tou ’36, Giorni del ’36), nel quale per ammissione dello stesso Angelopoulos il regista nascose dietro le porte i temi su cui voleva concentrarsi e fare leva, sottendendo due sensi di questa affermazione: da un lato il senso fisico (poiché gli avvenimenti centrali del film si svolgono dietro una porta chiusa) e dall’altro il senso metaforico (poiché impedisce agli spettatori di cogliere fino in fondo il senso degli avvenimenti). Ma già in quest’opera si può cogliere l’importanza che Angelopoulos dava alle diverse forme di autocensura, delle forme che gli permisero da un lato di giocare con espedienti tecnici non convenzionali e dall’altro di mettere in pratica la resistenza culturale alla dittatura.

È riconosciuto da molte parti che Angelopoulos con questo suo primo film abbia voluto stravolgere i canoni del film giallo tradizionale, eliminando quasi tutti gli elementi di suspence. Ciò avvenne con l’introduzione di un montaggio spezzato delle scene, in modo da creare una netta distinzione tra fabula e intreccio; realizzando molte scene con la tecnica del piano-sequenza, in modo da rallentare fortemente (e volutamente) il ritmo dell’intero film; riducendo la musica al minimo, utilizzandola solo per i titoli di testa e per i titoli di coda lasciando che il film scorra con le sole sonorità ambientali; ma soprattutto non essendoci la soluzione del delitto. Questo aspetto portò Vassìlis Rafailìdis ad affermare che “se il cinema è una finestra aperta sul mondo, allora questo film è un buco enorme nel muro del mito. Innanzitutto non è una storia inventata (cosa ormai inflazionata nel cinema greco), ma neppure un documentario. La macchina da presa non è un elemento ideologico estraneo, non è impotente nel lavoro di ricostruzione del quadro del mondo paesano. Tuttavia non si tratta neanche di riprese tipiche di una registrazione di un omicidio; insomma non è neppure un documentario. È un tentativo di attacco alla dialettica spettatore-spettacolo.” Complimenti che dimostrano quanto questo film fu recepito come fondamentale per permettere alla cinematografia ellenica di compiere un passo decisivo verso il riconoscimento del cinema come la settima arte, e non come un mezzo di intrattenimento. Ma anche quanto questa pellicola potesse permettere agli artisti greci di opporsi alla dittatura attraverso l’arte, rendendola strumento politico.

Con questo film Angelopoulos mise in atto l’autocensura, che glipermise, attraverso quest’opera di sottrazione, di girare e proiettare film che proponevano una netta contestazione del regime dei colonnelli. In particolare il suo secondo film, Μέρες του ’36 (Mères tou ’36, Giorni del ’36), può essere considerato il suo più grande azzardo sia dal punto di vista dei temi affrontati sia per il periodo in cui venne pubblicato, vista la situazione politico-sociale del 1972-73 in Grecia. Questo film narra le cause politiche e sociali che portarono al potere il dittatore fascista Ioànnis Metaxàs nel 1936, permettendo agli spettatori di compiere un parallelismo tra quegli avvenimenti e l’avvento al potere della Giunta dei colonnelli nel 1967, senza però palesarlo.

Attorno a questa pellicola verterà il terzo capitolo di questo studio.

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