di MARCO ALESSANDRO UNICI
Questa piccola rubrica, che ha inizio con tale articolo, vuole fornire degli spunti di riflessione per l’area cosiddetta sovranista che, ad oggi, secondo il sottoscritto, sta peccando di letture errate dello status europeo nell’ambito del regime unipolare statunitense; queste, infatti, conducono a indirizzi d’azione politica che, non cogliendo appieno la situazione politica attuale, risultano fallaci. Anziché mettere sul piatto una sorta di “ideologia del ritorno”, che vede il suo modello politico nell’Italia primorepubblicana, è oltremodo necessario scoprire le più lucide opere di analisi circa l’ordinamento geopolitico post-bellico.
Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, Alexandre Kojève, filosofo naturalizzato francese, nonché alto funzionario del governo di Parigi, propose la creazione di un “impero latino”. L’essenza di tale utopia richiede un’attenta analisi, in quanto si mostra come una prospettiva lucidissima sul mondo che ci si presenta dinanzi oggigiorno.
Il concetto di fondo di questo “impero latino” è anche abbastanza semplice: nel secondo dopoguerra, la Francia, unica nazione vincitrice estranea ai due grandi blocchi anglo-americano e sovietico, si avviò verso un lento processo di decadenza, divorata dal dominio mondiale delle due superpotenze. Per evitare ciò, Kojève ipotizzò un “terzo polo” (nome infausto per noi contemporanei) prettamente europeo e, ancor di più, latino: Spagna, Italia e Francia si sarebbero dovute riunire in questo “impero latino”. Una sorta di Unione Europea ante litteram, ma con un particolare molto importante: l’impero sarebbe stato formato da nazioni latine e cattoliche, cioè da nazioni con un sostrato culturale comune e con il beneplacito della Chiesa, allo scopo di sopravvivere al Leviatano anglo-americano di matrice protestante e a quello slavo-sovietico di radice ortodossa (che però ben poco di ortodosso conservava). L’impero, naturalmente a trazione francese, avrebbe avuto una moneta comune per contrastare sia il dollaro che il rublo, e una proiezione geopolitica mediterranea, sfruttando le colonie di tutti i paesi membri (ancora in essere a quel tempo, anche se all’Italia rimaneva solo la Somalia); il Mediterraneo sarebbe dovuto diventare, difatti, il baricentro della politica “imperiale”. Ciò che più premeva al filosofo francese era creare un’unione di nazioni “imparentate”, con legami anzitutto culturali e storici. Egli aveva inteso che nel mondo del secondo dopoguerra l’isolazionismo nazionale non era più possibile e che, per resistere ai nuovi orizzonti mondiali della politica, era necessario, per l’appunto, unirsi a chi aveva condiviso per secoli radici culturali comuni: mettere in primo piano le radici culturali significava, di conseguenza, sfuggire alla cannibalizzazione dell’Europa sia da parte dell’anglosfera sia da parte dell’universo sovietico.
Dopo aver dato uno sguardo alla struttura generale dell’utopia di Kojève, due sono gli aspetti su cui occorre riflettere, non soltanto per capire il mondo che ci circonda, ma anche per direzionare la nostra azione politica in un senso più attuale a seguito delle riflessioni offerteci dal filosofo francese.
In primo luogo egli sembra riprendere il concetto di impero come un termine ombrello per definire un’entità politica non determinabile né in Stato-nazione, né in confederazione, né in federazione: sicuramente ciò che aveva in mente il filosofo francese non era uno Stato-nazione (che anzi era da superare come si è visto), ma non si declinava nemmeno in confederazione o federazione, dunque potremmo dire che avrebbe assunto col tempo una sua peculiare forma, individuale per ogni impero succedutosi nella storia (l’Impero romano non aveva le stesse fattezze del Sacro Romano Impero, né tantomeno dell’Impero britannico). Non solo: la stessa nozione di impero richiamava un universo di tradizioni culturali che lasciavano pochissimo spazio a dissertazioni su tecnicismi economico-finanziari. In Europa, tale nozione echeggiava il mondo romano classico, l’impero per antonomasia. Non per niente sono sorte numerose diatribe, specialmente nel Medioevo, sulla legittimità dei vari imperi tra loro coevi (il Sacro Romano Impero e l’Impero bizantino si consideravano entrambi eredi di Roma, ma negavano l’uno all’altro tale legittimazione): l’impero doveva essere uno, strettamente collegato alla tradizione romana, non c’era spazio per un secondo. Riscoprire questa forma istituzionale avrebbe legato le nazioni attraverso un ordine superiore, poiché in primo piano ci sarebbe stata appunto l’eredità culturale di più di 2000 anni di storia. Kojève aveva molto a cuore questo aspetto, tanto che puntava sulla caratterizzazione latina e cattolica dei Paesi membri della sua utopia imperiale; per questa ragione tale unione sovranazionale poteva realizzarsi unicamente attraverso la consapevolezza di questa “parentela culturale”. Oggi, come possiamo ben vedere, l’Unione Europea pare avere completamente escluso tali considerazioni dal proprio orizzonte politico.
In secondo luogo troviamo un aspetto che non traspare a prima vista, ma è centrale nell’idea di Kojève, ovvero quello che concerne l’estensione spaziale dell’impero. Kojève sapeva quale mondo si era venuto a delineare dopo il secondo conflitto mondiale ed era un mondo che aveva incredibilmente accelerato la sua tendenza politica globale. Già nell’Ottocento le idee di panslavismo e pangermanesimo venivano usate per giustificare un’espansione territoriale sempre più ambiziosa. Di poi, la teoria (in termini geopolitici) dello “spazio vitale” del geografo tedesco Karl Haushofer, poi ripresa dai nazisti, e la “sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale”, durante la guerra segnalavano un’ulteriore direzione in questo senso, perciò si potrebbe dire che essa fu veramente, e molto di più rispetto alla prima, una guerra per il controllo del mondo. Dal canto loro gli americani avevano già implementato la “dottrina Monroe” e gli inglesi controllavano il più vasto impero coloniale della storia. Ciò andava di pari passo con lo sviluppo tecnologico dei vari Paesi occidentali, sviluppo che richiedeva accesso a un numero sempre maggiore di risorse, dislocate spesso in territori contesi. Ma non solo, perché in gioco c’era anche la supremazia sull’Isola-Mondo, di cui si è parlato in un articolo precedente, che garantiva, secondo i teorici anglosassoni, il controllo dell’intero globo terrestre (come poi peraltro si è dimostrato vero). Per cui la forma dello Stato-nazione, sviluppatasi in Europa a partire dal XV secolo, andava sempre più perdendo la sua attualità e funzionalità. Kojève intendeva creare l’impero latino per sopravvivere ai due “grandi spazi” americano e sovietico; curioso che, pochi anni prima, Carl Schmitt parlasse proprio di Großräumen (“grandi spazi”), concetto con il quale si designavano i nuovi Stati sovranazionali, “spazi di civiltà” sorti dalla condivisione di un patrimonio culturale comune (di cui si parlerà nel dettaglio in un successivo articolo). Per la portata della sua utopia, unitamente a quella di Schmitt, potremmo paragonare Kojève a un novello Machiavelli: come quest’ultimo aveva previsto la necessità dello Stato nazionale per sopravvivere al disfacimento dell’ordine politico feudale, così il filosofo francese metteva in guardia circa il nuovo assetto mondiale che richiedeva, appunto, una nuova forma di Stato.
Questi due aspetti, insieme a tutto il costrutto teorico dell’impero latino, devono farci riflettere, specialmente riguardo al significato di “sovranismo”; oggi infatti sembra dilagare, dalle nostre parti, un’idea di sovranismo che sa di neonazionalismo, che si concentra poco su una visione di ampio respiro dando troppo spazio invece a un irredentismo anacronistico. Tutto ciò giova all’egemone anglo-americano, il quale, come i Romani che aizzavano le tribù germaniche le une contro le altre per meglio tenerle a bada, ha gioco facile in un’Europa vittima di rivendicazioni nazionaliste. Ma non ci sarebbe bisogno nemmeno di andare così indietro nel tempo per trovare le prove di questa intenzione: gli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra furono il trionfo della politica dell’anglosfera, volta appunto a fomentare i nazionalismi (in quel caso dell’Est Europa, per spezzare il legame del continente con la Russia). È bene però specificare che allargare i propri orizzonti verso una prospettiva continentale non significa cancellare l’essenza del sovranismo e chinarsi davanti alla dialettica globalista; anzi, com’è intenzione di questa rubrica mostrare, significa calibrare la propria azione politica rispetto al panorama mondiale odierno e rispondere al regime atlantista. Oggigiorno d’altronde lo vediamo chiaramente con la Russia che si è messa in gioco per cercare di stravolgere lo status quo; se è vero che è con essa che dovremmo cercare un’alleanza per la nostra indipendenza dagli USA, ciò non può essere pensato né realizzato da singoli Paesi europei, poiché ognuno dovrebbe fronteggiare da solo il gigante americano; ma siccome quasi tutti aspirano a recuperare una propria sovranità (si pensi alla Francia, storicamente la più critica nei confronti della NATO, o alla Germania, la più colpita a livello economico dalla russofobia) sarebbe allora opportuno unire le forze. Riscoprire delle forme di comunitarismo può costituire un punto di partenza per creare un’alternativa concreta al semplice sovranismo di stampo primorepubblicano.