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La tornata elettorale dello scorso 25 settembre può essere considerata un momento spartiacque per la storia recente della nostra Nazione, poiché ha sancito la fine almeno temporanea di quel governo dei migliori (rigorosamente scritto con lettere minuscole, anche se meriterebbe ancor meno) che tanto bene ha fatto al tessuto sociale, economico e vitale dell’Italia, e ha consegnato le chiavi del Paese nelle mani del Centrodestra trainato da Fratelli d’Italia, “l’unico partito che abbia fatto opposizione in Parlamento”, affermazione che è stata ripetuta a lungo nell’ultimo periodo e sulla quale sarà necessario soffermarsi. Tutto ciò si spera significhi porre una pietra tombale sull’esperienza della dittatura in stile Troika che l’Italia ha subito nel recente passato, anche se le ferite aperte negli ultimi anni sono ancora sanguinanti e continueranno a sanguinare per un lungo avvenire, se non ci sarà un intervento per limitare i danni.

Dal nostro punto di vista, risulta necessario compiere un’analisi del fenomeno elettorale, che tanto ha segnato anche il mondo della dissidenza negli ultimi mesi, spesso monopolizzando i discorsi e i dibattiti delle nostre assemblee, portando a scontri molto accesi tra i militanti e in alcuni casi addirittura a divisioni. Ma l’indagine che verrà compiuta in questa sede non verterà sul semplice dato elettorale, bensì si cercherà di esaminare le ragioni che hanno spinto gli italiani a compiere una specifica scelta domenica 25. Il testo che seguirà non sarà certamente uno studio di stampo sociologico o antropologico, anche perché chi scrive non ha le adeguate competenze per compiere un’analisi di questo tipo; l’intenzione però è quella di tastare il polso del popolo italiano, chiedendosi perché sia stata presa una determinata decisione, e in base alle conclusioni alle quali si giungerà, gli obiettivi saranno quelli di capire quali siano gli errori che sono stati commessi, quali categorie di persone si siano allontanate dalla posizione di netta opposizione e quali invece continuino a gravitare nel mondo del dissenso. Impresa ardua, sicuramente ambiziosa, ma che nasconde un intento semplice, ovvero portare tutti i dissidenti a rimboccarsi le maniche e mettersi in moto per aumentare le fila della dissidenza stessa, invece di continuare a perdere pezzi. Non ci soffermeremo invece a studiare chi siano i nostri avversari, poiché si potrà compiere in un’altra sede l’analisi su quei tipi umani che si sono adeguati alle imposizioni degli ultimi anni e che in molti casi le hanno salutate con fervore e giubilo.

Proprio per comprendere quale sia lo stato del fronte del dissenso, il primo aspetto da tenere in considerazione è puramente numerico: se ai dati relativi all’astensione (sulla quale ci si soffermerà più avanti nel dettaglio), che si è attestata al 36%, si aggiunge il 26% raggiunto da Fratelli d’Italia (non si è voluto tenere conto delle percentuali raggiunte dall’intero Centrodestra perché Lega e Forza Italia non si sono arrogate la definizione di “partiti di opposizione”) e il 5% delle restanti forze “antisistema”, scopriamo che almeno 2 italiani su 3 hanno rifiutato le politiche dittatoriali poste in essere dal governo Draghi nell’ultimo anno e mezzo. Il “governo dei migliori” è stato rigettato dalla maggioranza qualificata degli italiani, che per i motivi più disparati si sono opposti all’operato del salvatore della Patria. Si potrà contestare questa affermazione dicendo che Fratelli d’Italia non è stato altro che un partito di finta opposizione nell’arco della precedente legislatura, ma come si è detto l’intento di questo articolo è capire le ragioni che hanno portato una fetta importante dei nostri compatrioti a dare fiducia a Giorgia Meloni, e ciò non può essere scisso dal messaggio propagandistico che da lei è stato portato avanti nel recente passato.

La grande vincitrice di queste elezioni potrà garantire, grazie al risultato raggiunto dalla sua coalizione, di avere quella maggioranza assoluta sia alla Camera che al Senato che non si vedeva dal 2008 e che tanto nocumento ha portato alla nostra Nazione dal governo Monti in poi. Il fatto che questo partito sia percepito da anni sia in Italia sia all’estero come esponente dell’estrema destra e nonostante ciò sia riuscito a vincere le elezioni, può significare una sola cosa, ovvero che una buona parte degli italiani è animato da ideali conservatori e patriottici, vuole vedere il proprio Paese nuovamente in possesso della propria sovranità e capace di riaffermarsi sul piano internazionale.

Se da un lato questo consenso può essere stato trovato nell’ambito dei fedelissimi del partito, d’altro canto Fratelli d’Italia ha potuto attingere a piene mani dal bacino del mondo No Green Pass, poiché la paura del ritorno di Speranza e compagnia cantante, unita all’assenza di una reale forza dissenziente che si rifacesse a ideali tendenti maggiormente verso la destra, ha fatto sì che quella parte di elettorato dissidente e di estrazione tradizionalista si rivolgesse in massa verso il partito di Giorgia Meloni. E chi l’anno scorso è stato nelle piazze e ha parlato con i ribelli, dovrebbe sapere che nell’area del dissenso l’anima di destra era ben presente e forte. Attenzione, non si sta facendo alcun riferimento a forze politiche organizzate, ma a persone comuni, singoli cittadini che avevano animato le proteste poiché erano stati toccati nella loro quotidianità dall’imposizione di quel ricatto mafioso definito Green Pass, e che per tale motivo avevano scelto di scendere in piazza, salvo pian piano ritirarsi anche perché tentennante verso la progressiva monopolizzazione di molte di queste piazze da parte di figure provenienti dalla sinistra.

Nella cosiddetta “area del dissenso” si è consumata una spaccatura profonda non tanto sulla questione del voto/non voto, come potrebbe sembrare a chi getta uno sguardo fugace alle questioni quotidiane, bensì su aspetti ideologici molto più probanti. Si era stati in grado di riconoscere, un anno fa, che il movimento No Green Pass era composto da anime ben diverse tra loro; le persone che venivano a manifestare potevano essere animate da ideali sia di destra che di sinistra, ma erano accomunate dall’accettazione di un proprio sistema di valori, contrapposto al vuoto pneumatico proposto dal “Nuovo Mondo” targato World Economic Forum; un po’ come accadeva nei racconti di Giovannino Guareschi, in cui le figure di Don Camillo e Peppone, per quanto in costante antitesi, riconoscevano la statura dell’avversario e dell’impianto ideologico che egli difendeva, e nelle dispute cercavano di trovare un punto di incontro.

Se molte persone sono arrivate al punto di votare Fratelli d’Italia pur avendo preso parte alla nostra lotta, allora è necessario compiere un profondo esame di coscienza collettivo e giungere all’unica conclusione possibile: fare un profondo mea culpa. Evidentemente le differenze ideologiche in molti casi non sono state fonte di dialogo e di dibattito, bensì hanno portato allo scontro e a un progressivo allontanamento delle persone più tradizionaliste e conservatrici dal mondo della dissidenza. I motivi sono vari, e sicuramente in tanti sono giunti alla conclusione di dare il proprio voto a FdI per paura del ritorno di un governo guidato da Mario Draghi o da qualche figura a lui affine; ma se si è giunti a tale conclusione, significa che anche le cosiddette “forze antisistema”, che pur sembravano godere di grande fiducia nel periodo più buio della dittatura, non sono state in grado di dare un senso di serietà durante la campagna elettorale. E proprio queste forze hanno bisogno di un’analisi a sé stante.

Il terzetto di partiti antisistema che si è presentato alle elezioni (non ce ne vogliano i seguaci di Adinolfi e De Magistris, ma il primo non ha mai avuto alcuna possibilità di guadagnarsi la benché minima stima da parte di chi scrive questo testo, mentre il secondo si è reso portavoce di una realtà che durante tutto il periodo pandemico non si è mai esposta in modo netto sulla questione riguardante i sieri sperimentali e la tessera annonaria digitale) ha avuto uno e un solo grave peccato originale: quello di essere guidati da egolatri capaci soltanto di porsi veti incrociati che non hanno permesso di creare una lista unica nella quale far confluire i voti della dissidenza. Il gioco dei veti incrociati tra i vari esponenti, che si sono accusati a vicenda di appartenere a gruppi politici o esoterici di varia natura, e di conseguenza di aver sabotato gli avversari in quanto infiltrati del sistema, ha portato a una pantomima quanto mai ridicola se non fosse stata tragica nei contenuti e nella forma, che lascia in dote un movimento di dissidenza con le ossa rotte, spaccato, stanco e con le idee ancora meno chiare rispetto a prima, oltre a rischiare seriamente di snaturarsi ora che il nuovo pericolo percepito dai nostri connazionali benpensanti sarà il ritorno dell’autoritarismo in Italia, motivo valido per cui si mobiliteranno per scendere nelle piazze ricercando e forse anche trovando il nostro consenso.

La colpa di tutti coloro che si spendono per la costruzione di un’opposizione che sia un’alternativa alla realtà cogente è quella di aver pensato a lungo di essere esponenti di un movimento marcatamente rivoluzionario. La realtà è che il vero cambio di paradigma, ovvero l’insieme di intuizioni, deduzioni, convincimenti e valori che provoca una rivoluzione nei fini, nei contenuti e nei metodi (Thomas Kuhn enunciò questa definizione rivolgendola all’ambito della scienza, ma tale discorso può essere applicato anche a un tipo di analisi della società come quella che si sta tentando di compiere in questa sede) è quella proposta a Davos dal World Economic Forum e che ci sta portando verso un “Mondo Nuovo” nel quale tutto deve poter essere modificato, nulla deve poter rimanere inalterato o stabile, ma tutto deve essere manipolabile e trasferibile. Non aver colto questo aspetto significa non essere stati in grado di leggere la realtà così come essa si dipanava davanti ai nostri occhi, e immersi in questo circolo vizioso ci siamo convinti di essere dei portatori di un pensiero nuovo, quando in realtà non abbiamo fatto altro che riproporre dei pensieri e degli schemi quasi ottocenteschi, e perciò che hanno una radice storica marcata. E ciò non deve essere interpretato in senso negativo, poiché sono le radici profonde che danno forza alle idee innovative che sbocciano sui rami della storia. A parole si continua a proclamare la necessità di superare i concetti di destra e di sinistra, mentre nella realtà ciò forse non deve essere auspicabile, perché smettere di riaffermare ideali del passato significa rifiutare quella tensione innata nell’uomo e di conseguenza scadere sullo stesso piano della politica odierna, che è ormai completamente rivoluzionata, ponendo in essere un sistema che (sfruttando i nostri schemi preconcetti) ammanta di etichette diverse la stessa cosa.

In una situazione di questo tipo, l’evoluzione all’interno del movimento di resistenza (termine che riporta necessariamente alla difesa della tradizione, giacché resiste ciò che è già in piedi) è avvenuta anch’essa nel solco della tradizione, poiché si è riproposto ancora una volta un costume tipico degli ambienti della sinistra: la divisione. Una divisione che si è consumata anche sul tema del voto, portando molte figure a propagandare l’astensionismo e, a urne chiuse, ad arrogarsi un merito che null’altro può essere se non una sorta di vittoria di Pirro, perché il dato in sé è stato importante, ma non abbastanza elevato da poter sortire quell’effetto dirompente che si erano auspicati i divulgatori di questa idea. Va considerato, infatti, che l’astensione dal voto è un gesto che ha un solo e vero motivo scatenante, ovvero la totale sfiducia nei confronti della politica dei partiti. Al tempo stesso, è necessario porsi qualche domanda riguardo il peso avuto dall’area del dissenso in questa scelta e quanti invece siano elettori del PD, della Lega o del Movimento 5 Stelle che sono rimasti sconvolti dai cambi di casacca dei propri esponenti nell’ultima legislatura, pur rimanendo fedeli alla narrazione pandemica, e notando il tonfo che entrambi i partiti hanno avuto sia in termini percentuali sia in termini numerici, non è difficile pensare che questi numeri non siano stati affatto esigui. Ma ciò che ancor di più deve far ragionare chi partecipa alla resistenza consiste nella percezione che hanno riguardo la politica le giovani generazioni, giunte all’accettazione definitiva dell’insensatezza di qualsiasi scelta e mossa in questo ambito e preferendo dunque passare la propria esistenza trascinandosi pigramente da un videogioco a un altro senza essere stimolato a compiere un ragionamento che sia più profondo della ricerca del prossimo filtro di Instagram.

In questo panorama desolante, occorre comprendere che la fetta di dissenzienti che non si sono recati volontariamente alle urne la cui intenzione fosse quella di dare un segnale politico è stata sicuramente dignitosa, ma non significativa. I propugnatori dell’astensionismo devono mettersi in guardia dall’arrogarsi un merito che probabilmente non hanno, poiché l’influenza che si è in grado di avere non è quantificabile in numeri di questa portata. In altre parole, se l’accusa mossa verso i votanti è stata quella di delegare la propria responsabilità politica ad altre entità come i partiti, d’altro canto i sostenitori della rinuncia consapevole devono rendersi conto che il loro effetto si è esaurito nella ristretta schiera dei propri seguaci, che spesso si sono ridotti di numero proprio a causa della questione del voto. Il rischio concreto non è tanto quello della divisione tra gruppi, quanto piuttosto l’appagamento derivante dalla convinzione che la propria cerchia sia autoreferenziale e dunque autosufficiente. Nella realtà esterna a tale cerchia, l’astensionismo è stato un fenomeno estremamente diffuso per la totale disaffezione nei confronti della politica, per la pochezza dei candidati e per l’assenza di una realtà che fosse portatrice di un sistema di valori ben definiti. Questo aspetto è probabilmente alla base della vittoria di Fratelli d’Italia, un partito che si rifà chiaramente a un impianto di principi molto più affine agli schieramenti della Prima Repubblica, se messo a confronto con il rimanente panorama partitico italiano.

Da qualsiasi parte la si guardi, la situazione non può certamente essere lieta e deve invece portare a un’ammissione di colpa generale per non aver saputo cogliere i segnali nel modo corretto e non aver saputo tenere assieme le fila del dissenso, spesso per eccesso di confidenza nei propri mezzi e perciò peccando di presunzione (chi scrive non è esente da questo giudizio, anche perché questo testo ne dimostra la presunzione stessa). Le piazze non si sono svuotate, ma hanno visto un calo considerevole nell’affluenza, sia perché i metodi utilizzati in molti casi sono stati fin troppo pacifici, sia perché non sono stati raggiunti risultati di alcun tipo. La protesta contro il Green Pass ha perso in tutto e per tutto ogni singola battaglia affrontata, e davanti a queste sconfitte una parte di quegli italiani che hanno rifiutato l’obliterazione ha preferito gravitare verso una forza di sistema, ma che maggiormente rispondeva ai propri connotati ideologici. Chi non riconosce che buona parte dell’elettorato No Green Pass ha votato per Giorgia Meloni, probabilmente non è in grado di cogliere la realtà dei fatti, oppure non si cura di ciò che sta al di fuori del proprio orticello. Ciò non deve essere necessariamente una colpa, se la persona in questione non è un’attivista; ma chi si propone di cambiare lo stato di cose deve essere in grado di leggere queste situazioni in modo da non chiudere dei canali che, al momento, devono assolutamente riaprirsi, a meno che non preferisca avere come compagni di lotta figure preoccupate dal ritorno delle camicie nere o dell’arrivo dei russi, ma non della prossima dose.

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