di MARCO MALAGUTI
Sono passati trent’anni da quando Francis Fukuyama pubblicò il suo “La fine della storia e l’ultimo uomo”. In quegli anni, dopo la caduta del muro di Berlino, il politologo amero-giapponese sembrava dirci la verità. Dissoltasi ideologicamente, politicamente ed economicamente l’Unione Sovietica, la storia scompariva sdrucendosi nel dominio unipolare statunitense, nell’imperio incontrastato del modello economico capitalistico e in quello liberaldemocratico della politica. Ogni alternativa non soltanto appariva impraticabile ma assumeva una parvenza carnevalesca e anacronistica. I pochi sopravvissuti del vecchio mondo sembravano personaggi tanto folli quanto inoffensivi, ma nondimeno da condannare e processare, come è poi realmente avvenuto per capi di stato come Slobodan Milosević, Saddam Hussein, Mu’ammar Gheddafi.
La Corte Penale Internazionale de l’Aia, diretta erede di quella di Norimberga, assimilava le lotte, peraltro disperate e sempre difensive, contro il nuovo assetto unipolare, ai crimini contro l’umanità dei nazionalsocialisti, evidenziando quindi una sorta di congruenza tra “l’umanità” e l’assetto unipolare stesso che la governava. Quel mondo unipolare, coi suoi assetti economici, geopolitici militari, usciva quindi, almeno nelle speranze dei suoi sostenitori, dalla dimensione della contingenza storica, per transustanziarsi in pieno statuto ontologico della nuova umanità redenta dalla vittoria degli imperi anglosassoni contro le potenze del male, da Napoleone fino a Gorbachev.
Dal 24 Febbraio 2022 tutto ciò appartiene al passato. Il paradigma post-istorico, peraltro già incrinato da eventi come la guerra russo-georgiana del 2008 e la rinascita economica cinese, apparve allora per ciò che era: una speranza, più che una realtà. Una ben determinata Weltanschauung piuttosto che l’epilogo logico ed inevitabile della lunga marcia della storia. La fine della storia è finita, ma chi volesse considerare tale evento come la confutazione, da parte delle contingenze, delle idee di un singolo accademico, compirebbe un grave errore. A crollare, in quel giorno di febbraio, è stato un intero paradigma. Nel caso del socialismo sovietico, quando il collasso politico ed economico arrivò al suo epilogo, quello politico era avvenuto ben prima: già all’inizio degli Settanta era ormai chiaro come l’onda lunga delle rivoluzioni di matrice marxista ai quattro angoli del mondo si fosse arrestata. Il crollo effettivo, che è sempre posteriore a quello ideologico, arrivò solo una ventina d’anni più tardi. Lo stesso crollo ideologico, oggi, sta avvenendo ai danni dei vincitori di allora. Poiché però le moderne liberaldemocrazie occidentali amano descriversi, mentendo, come post-ideologiche e filosoficamente neutrali, il nostro lavoro di indagine sul loro collasso ideologico dovrà essere più approfondito.
Differentemente dal socialismo, tanto sovietico quanto cinese, cubano, arabo ecc., dove nessuno aveva mai proclamato il definitivo raggiungimento di quello status utopistico di vittoria totale e finale del proprio paradigma politico, il liberal-democratismo occidentale quella vittoria, quel raggiungimento dello stato di perfezione assoluto, la realizzazione dell’utopia, l’aveva proclamato realmente. La teoria, anzi, la proclamazione della fine della storia, rappresentava esattamente tale convinzione. I fascismi non hanno mai proclamato la loro vittoria totale sulle contingenze storiche, né i regimi socialisti di oltrecortina hanno mai proclamato l’instaurazione definitiva del comunismo. Una simile proclamazione di vittoria appartiene solo alla moderna liberaldemocrazia, che qualifica questa sua vittoria non soltanto come prodotto di una serie di determinate contingenze storiche, ma anche come epilogo naturale dell’intera vicenda storica e filosofica della razza umana.
L’idea della fine della storia, sognata per tutta la guerra fredda e poi inveratasi per circa un trentennio, prevedeva che l’intero globo marciasse, con le buone o con le cattive, verso il discioglimento in un grande Occidente collettivo, il cui modello poteva apparire desiderabile o meno, ingiusto oppure no, ma in ogni caso inevitabile. La guerra della Russia contro l’Ucraina ha invece scoperchiato l’amara realtà: l’Occidente non è il solo padrone dell’uso della forza come, per dirla con Clausewitz, “prosecuzione della politica con altri mezzi”, e questo smentisce nella maniera più vigorosa il già malfermo paradigma post-istorico.
La concretizzazione di una guerra offensiva condotta da una nazione che non si riconosce nei dettami ideologici ed economici dell’Occidente nega da principio l’intera teleologia occidentalista. A rappresentare un pericolo per l’Occidente non è tanto la Russia o, come affermano i media americani ed europei, il presidente Putin col suo entourage, ma lo smascheramento che la Russia ha realizzato, l’evidenziazione del principio per cui sono le armi, indipendentemente da chi le possegga, a fare la storia, e non i princìpi astratti della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Crolla quindi quella precaria costruzione che aveva visto tutte le teorie politiche laiche (e non soltanto il marxismo) riproporre sotto mentite spoglie l’escatologia finalistica delle religioni abramitiche, dove la storia marcia incondizionatamente verso un Giudizio Universale e, subito dopo, una Città di Dio. Si tratta di un passaggio importante: dopo la secolarizzazione positivistica sull’onda della rivoluzione scientifica, che vide il crollo dell’Occidente teologico, l’epoca nella quale viviamo vede la secolarizzazione della religione laica dei diritti umani e della liberaldemocrazia, che snuda brutalmente non soltanto lo spazio anomico delle relazioni internazionali, ma anche la più generale inconsistenza, all’atto pratico, della mitologia del liberalismo (religione laica) e dei suoi comandamenti (diritti umani).
Nulla uccide una religione meglio della bestemmia: la guerra della Russia contro l’Ucraina è precisamente la prima bestemmia, dopo trent’anni, della religione e della teleologia laica dell’Occidente. Che tale bestemmia rimanga impunita non rende solo la tara della debolezza intrinseca dello schieramento occidentale, ma anche -e soprattutto- l’assoluta inconsistenza teorica delle sue premesse filosofiche e culturali: il dio laico bestemmiato dai soldati e dal governo russo non scende a punire i blasfemi. Si tratta di un insulto che l’Occidente non può tollerare, pena, la distruzione della propria credibilità di fronte ai suoi cittadini.
Occorre quindi prestare massima attenzione alle contromosse che l’Occidente preparerà per cercare di resistere all’attuale mutazione di assetto: Putin e la Russia saranno gli obbiettivi dichiarati ma sarà l’opinione pubblica occidentale il vero bersaglio della controffensiva euroamericana, una controffensiva che sarà tanto più accanita sul fronte interno quanto più si acutizzeranno le criticità su quello esterno. Le élite e gli apparati di potere occidentali possono mantenere il potere, all’interno della loro sfera di influenza, tramite la detenzione del monopolio della violenza (come la polizia, gli eserciti ecc.), ma tale monopolio si configura come piuttosto precario se a mancare, alle basi del potere, è la percezione, da parte dei popoli che vi sono sottomessi, della sua legittimità.
Se la Rivoluzione Francese riuscì ad affermarsi non fu perché la crisi economica che ne aveva fatto da detonatore fosse stata più grave di tante altre del passato, quanto piuttosto perché essa avvenne contemporaneamente ad una forte crisi di legittimità dell’impalcatura ideologica e teologica del potere monarchico. In assenza di un potere riconosciuto come legittimo, ogni difficoltà, ogni asperità che si trova ad affrontare un popolo, perde il suo orizzonte di senso, perde quella giustificazione che la rende accettabile, ed il conto si scarica interamente sulle élite, alla cui incapacità non può più fare da contraltare una legittimità riconosciuta.
Questa crisi di legittimità, questa percezione di abusività del potere, è già assai diffusa in Occidente, come testimoniano le ascese dei partiti populisti ed il forte clima antipolitico che prospera su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico. Il quadro è quasi completo se a tutto ciò aggiungiamo l’irrecuperabile crisi di credibilità dei mass media, che del potere costituiscono il megafono. Percezione dell’abusività del potere e incredulità nei confronti delle sue narrazioni sono i combustibili principali di ogni processo rivoluzionario: ciò, tra le altre cose, è molto più chiaro alle élite che non a coloro che dovrebbe essere i rivoluzionari.
L’autolesionismo solo apparente dell’Occidente liberaldemocratico, che non esista ad azzoppare la sua stessa economia pur di sanzionare (senza successo) la Federazione Russa, è la prova più lampante del fatto che la posta in gioco è ben più corposa del posizionamento della linea di confine che corre da Kherson a Kharkov, e che essa innerva lo stesso nocciolo della teologia politica dell’Occidente. Il disastro militare e politico del Vietnam, che intaccò per lunghi decenni il prestigio degli Stati Uniti d’America, non negava l’assetto bipolare della Guerra Fredda; al contrario, esso lo confermava. Ad uscire con le ossa rotte da Saigon furono gli apparati militari e politici di Washington ma non la sua sovrumana visione messianica, che invece rimase intatta.
Una simile ritirata, al crepuscolo del mondo unipolare, appare impensabile. Mentre la vittoria di uno dei due sfidanti confermava l’assetto bipolare del mondo diviso in blocchi, nella prospettiva unipolare, proprio in virtù di tale unipolarità, non è possibile la sfida di due o più poli. Indipendentemente dall’esito, la sfida di un polo all’altro nega già espressamente l’esistenza di un unico polo. Se uno stato perde la propria sovranità quando gli viene sottratto il monopolio della violenza, viene facile capire che anche il mondo unipolare vede il suo status minacciato quando perde quel medesimo monopolio: le sue leggi da assolute si fanno relative, contingenti, opinabili. Nulla teme di più l’occidente di essere opinato: la culla del dubbio socratico teme più di ogni altra cosa che l’acido corrosivo di quello stesso dubbio dubiti di essa.
La scoperta di questo timore, di questa paura mortale, che rende l’occidente debole ed al contempo assolutamente pericoloso, apre già uno spiraglio su quali tattiche adottare per accelerare il probabile, ma non certo, collasso politico dell’attuale assetto di potere che opprime le popolazioni occidentali. Tuttavia, occorre, a questo punto, tirare una riga di demarcazione all’interno di questo variegato pot-pourri che abbiamo, fino ad ora, definito col nome di “Occidente”. I media contemporanei sono insuperabili maestri nel confondere le acque quando si parla di Occidente ed Europa. Tali due concetti si compenetrano, vengono in contatto e dialogano, ma sono lungi dall’essere la medesima cosa e dall’appartenere alla medesima essenza. Il crollo della teleologia e della religione laica dell’Occidente non significa quindi necessariamente il crollo morale e spirituale dell’Europa, anzi, vi sono vari indizi che lascerebbero piuttosto supporre il contrario.
Sovente l’Occidente è stato definito come la patria del nichilismo, di quella mancanza di scopo che avrebbe disorientato gli uomini dell’Ottocento e del Novecento che aveva convinto Friedrich Nietzsche di essere il filosofo dei venturi due secoli. In realtà, e lo vediamo, il nichilismo non abita in Occidente. La stessa parola non nasce in Europa, ma vi giunge importata dalla cultura russa1. Nessun autore è stato interprete più fedele dell’epos tragico del nichilismo di Dostoevskij, un colosso del panorama culturale della Terza Roma. Al contrario, il nichilismo non è di casa in Occidente. Benché secolarizzato, quando non addirittura apertamente ateo, l’Occidente rimane profondamente e radicalmente teologico e dogmatico, nonché pervaso da una radicale morale sacerdotale che trasuda in diversi fenomeni politici e sociali al suo interno. Il fenomeno sociale del wokism, il dogmatismo liberista che domina incontrastato l’ambito economico, il fideismo nella Scienza (che da mezzo è diventata fine), il vittimismo piangente ambiguamente sposato all’imperialismo neocrociato dei diritti umani sono fenomeni che hanno molto in comune con gli aspetti più deteriori della cultura religiosa che non con il cupo nichilismo vitalistico di Nietzsche e Stirner.
Al contrario, è vero dell’Occidente ciò di cui Nietzsche accusava a torto la religione cristiana: esso è pervaso da un esiziale Todestrieb che, lungi dall’essere anche solo lontano parente del nichilismo vitalistico, si avvicina invece al furioso e risentito disprezzo del mondo che caratterizza la mistica gnostica2. Al contrario l’Europa intrattiene da sempre un rapporto molto stretto con il nichilismo, un rapporto che portò Nietzsche a parlare appropriatamente di nichilismo europeo anziché di “nichilismo occidentale”. L’Occidente quindi si configura come adepto ad una religione di morte (che rimane pur sempre una religione) mentre l’Europa come animata dal nichilismo; si tratta di una differenza sottile ma essenziale.
Mentre l’Occidente ricerca pervicacemente la morte, l’Europa ricerca il Nulla. Ernst Jünger scriveva già nel 1978 che il suo avamposto era “prossimo al nulla”3, ed era lì che si conduceva la sua lotta. In questa prospettiva, Europa e Russia sono vicinissime ed il nichilismo europeo dialoga fittamente con quello russo. Al contrario, l’Occidente non può in alcun modo tollerare il nichilismo. Già Heidegger nota in “Che cos’è metafisica?” che, per la Scienza, il Niente è “mostruosità e fantasticheria”4. Come già detto, una religione di morte rimane comunque una religione. La religione della morte non può tollerare che il suo culto sia messo in dubbio o sbertucciato. Per questo motivo il nichilismo è ancora un ospite inquietante. Nella cesura che discrimina il Nulla dall’Essere risiede il punto di fuga dalla gabbia d’acciaio della religione di morte dell’Occidente liberale e dei diritti umani.
L’atto di violenza che discrimina tra Nulla ed Essere, cioè che crea, è il polemos che per Eraclito era il padre di tutte le cose. Da Socrate a Meister Eckhart, da Descartes a Nietzsche fino a Jünger e Heidegger, l’Europa si è confrontata, in maniera sempre più consapevole, col problema del Nulla: il nichilismo europeo è il fenomeno culturale che emerge con questo problema. In che modo il nichilismo può essere riletto in chiave positiva all’interno di una lotta di liberazione?
Se il nichilismo si configura come caduta di tutti gli scopi e come dominio della volontà allora la prospettiva è chiarissima: da un lato viene erosa, come sta accadendo, la base teologica della religione liberale dei diritti umani, dall’altro ricade sulle spalle – e solo sulle nostre spalle- la decisione di un cambiamento di rotta per gli europei. In ambito eurasiatista e tradizionalista molti ritengono che la reazione all’offensiva culturale della religione della morte dell’Occidente sia possibile tramite una pura e semplice ripresa e pratica delle religioni tradizionali (Cristianesimo, Ebraismo, Islam, Induismo etc.). Se tale affermazione contiene elementi di verità ne vanno però illustrati i presupposti.
Religione della Morte e religione tradizionale non possono coesistere: senza avviso di sfratto la religione della Morte rimarrà nei cuori delle persone che ne sono vittima. Il nichilismo è precisamente quell’avviso di sfratto. Se al nichilismo non è dato modo di compiere il suo travaglio dialettico, se a questo travaglio non si abbina una solerte di pratica di un’attiva Gelassenheit, quella trasmutazione dei cuori e delle menti degli Europei non potrà avvenire. Senza un’attiva esperienza di prossimità con il Nulla difficilmente può aprirsi lo spazio teofanico all’interno del quale può manifestarsi quel solo Dio che, secondo Heidegger, ci può salvare.
L’alternativa alla salvezza è il mondo religioso (parliamo di religione della morte) nel quale l’uomo, come già esposto in maniera chiara da Schmitt, vive sottomesso alla tirannia dei valori e alla loro mortale potenzialità belligena. La guerra in Ucraina fa sorgere una prospettiva angosciosa per gli europei: da un lato i valori di morte tipici della religione liberale, dall’altro il vuoto dei valori del nichilismo. Eppure, il passaggio si dimostra come inaggirabile: una pienezza spirituale, che non sia solo mera forma esteriore, non può sostituirsi ad un’altra pienezza. Affinché la pienezza spirituale di una tradizione autenticamente umana possa manifestarsi nell’uomo europeo è evidente che, prima di ciò, occorra che si affermi e agisca un Nichilismo sano, estatico nella sua missione di fare a pezzi l’attuale religione della morte. Soltanto allora nei cuori europei, vuoti ma puliti, potrà davvero tornare a manifestarsi un germe in grado di ridonare agli europei una vita che non sarà più subumana o transumana ma, finalmente, soltanto autenticamente umana.
1 I.S. TURGENEV, Memorie letterarie, a cura di E. Damiani, pagg. 187-188, Passigli, Firenze 1992
2 J.L. HAROUEL, I diritti umani contro il popolo, pagg. 28-29-30, Liberilibri, Macerata 2018
3 E. JÜNGER, Sämtliche Werke, II, 344, Klett-Cotta, Stuttgart 1978 sgg.
4 M. HEIDEGGER, “Che cos’è metafisica?”, pag. 41, Adelphi,Milano 2001
Intervento estratto dalla conferenza “La fine della fine della storia e l’inizio del multipolarismo” del 28 aprile 2023