di NILO VLAS
Il Ministero della Difesa russo, nido di corruzione
Quando in Russia è stata annunciata la mobilitazione parziale, e i primi mobilitati hanno iniziato a confluire nei centri di reclutamento, si scopre l’orrore: nei magazzini dell’esercito mancano un milione e mezzo di completi d’uniforme per soldati. Lo Stato aveva stanziato il budget necessario per questo equipaggiamento, e i registri mostravano la sua presenza nei magazzini. Ma le uniformi non ci sono. Qualcuno le ha vendute al mercato nero. Come risultato, la maggior parte dei mobilitati ha dovuto pagare di tasca propria tutto l’equipaggiamento, dal giubbotto antiproiettile alle calze termiche. Quando dai magazzini scompare materiale, peraltro in tali quantità e su tutto il territorio nazionale, qualcuno seduto molto in alto deve risponderne. Ma nessuno è stato punito o almeno dichiarato responsabile.
Più o meno nello stesso periodo giunge la notizia che la figlia del Ministro della Difesa Sergej Shoigu, Xenia Shoigu, ha ricevuto 1,1 miliardi di rubli di fondi pubblici per la ristrutturazione di un memoriale storico a San Pietroburgo. Xenia peraltro è abituata a ricevere simili somme lavorando a monumenti e memoriali. Le malelingue dicono pure che porzioni rilevanti di questi capitali finiscano in tasche private…
Ora proviamo a immaginare come deve sentirsi un mobilitato, strappato alla sua vita pacifica per servire la patria finanche all’estremo sacrificio, costretto a comprarsi con i suoi risparmi l’equipaggiamento che l’esercito avrebbe già dovuto possedere, mentre la figlia del ministro della difesa nuota nel denaro.
Una situazione che farebbe ridere, se in palio non ci fossero le vite dei soldati. Eppure è solo la punta dell’iceberg della corruzione che affligge il Ministero della Difesa russo.
Il pesce marcisce sempre dalla testa, e la testa del ministero è molto marcia. Sergej Shoigu, nonostante la fama di cui gode in Occidente, è in realtà una persona estremamente inadeguata al suo ruolo, per usare un eufemismo. Aldilà degli schemi corruttivi in cui anch’egli è quasi certamente coinvolto (del resto è molto ricco), il problema principale di Shoigu è che non si tratta di un militare. Non ha servito nell’esercito un solo giorno, nemmeno in qualità di soldato semplice. È diventato Ministro della Difesa dopo aver diretto il Ministero per la Protezione Civile, dove si era già dimostrato un inetto.
Forse per l’Europa non c’è nulla di strano nel fatto che la carica di Ministro della Difesa sia occupata da un civile: è la prassi anche in molti paesi della NATO. Ma si tratta di una situazione inaccettabile in un paese come la Russia, che deve gestire un’area di influenza molto turbolenta e piena di conflitti congelati pronti a scoppiare. Tanto più in tempo di guerra sarebbe lecito aspettarsi che a capo dell’esercito russo sia posto un militare. Al pari di Shoigu ben quattro viceministri della difesa sono dei civili, e questi “brillanti” primi 10 mesi di guerra ne sono la diretta conseguenza. Non bisogna dunque stupirsi che nell’esercito, soprattutto tra i gradi alti, regnino favoritismo e raccomandazione. Insieme al suo ministro ad essere inadeguato è risultato l’intero Ministero, che con lo scorrere dei mesi si è dimostrato incapace di rispondere alle necessità materiali del fronte. Le carenze toccano praticamente qualsiasi settore: dagli scarponi alle coperte calde e i sacchi a pelo, a oggettistica sofisticata come visori notturni, visori termici, sistemi di comunicazione radio criptati, palmari militari.
La situazione sarebbe catastrofica se non per l’aiuto delle associazioni volontarie, che raccogliendo le donazioni della gente comune comprano il materiale necessario sul mercato e lo portano personalmente nella zona di guerra, consegnandolo in mano ai soldati. In tutta la Russia sono nate sartorie di volontari per cucire le uniformi magicamente scomparse dai magazzini dell’esercito.
Per rendersi conto della portata dell’aiuto volontario in favore dell’esercito, basti entrare su qualsiasi canale russo di informazione su Telegram: le raccolte fondi sono all’ordine del giorno e riguardano praticamente qualsiasi cosa di cui dovrebbe essere equipaggiato un soldato, eccetto le armi. Insomma, da una parte abbiamo la società civile che, già piuttosto povera, dona i suoi ultimi risparmi per sostenere lo sforzo bellico. Dall’altra abbiamo un Ministero di corrotti che si è arricchito alle spalle dell’esercito e ha trascurato le misure basilari per l’approvvigionamento delle forze armate in caso di guerra.
Ovviamente i problemi di equipaggiamento che hanno le forze armate russe vanno moltiplicati per dieci volte se si parla dei combattenti di Donetsk e Lugansk, che pure ricoprono un ruolo fondamentale nel fronte russo.
Ora, soprattutto di fronte agli evidenti disastri che hanno caratterizzato la mobilitazione parziale, il Ministero è costretto a riparare in tutta fretta alle mancanze, e la situazione con i rifornimenti pare lentamente migliorare. Ma ancora una volta la domanda sorge spontanea: se l’esercito fosse già stato rifornito di tutto il necessario a febbraio, forse questa guerra sarebbe già finita.
Non stupisce a questo punto che i reparti russi più efficienti siano quelli del gruppo “Wagner”, una compagnia militare privata il cui equipaggiamento e addestramento viene gestito indipendentemente dal Ministero della Difesa.
Superiorità tecnologica russa? Molto relativa
Tra i motivi per cui pochi a febbraio concedevano qualche chance all’Ucraina vi era la presunta superiorità tecnologica della Russia in fatto di armamenti. Effettivamente ogni anno, tra la parata del Giorno della Vittoria e i vari forum internazionali di industria militare, le forze armate russe presentavano nuovi modelli di armamenti all’avanguardia, lasciando l’impressione di essere tra gli eserciti più tecnologicamente avanzati al mondo.
Al decimo mese di Operazione militare speciale bisogna però constatare che si trattava in larga misura di un bluff. Prendiamo come esempio i carri armati: nel 2015 fu presentato in pompa magna, alla parata per il Giorno della Vittoria del 9 maggio, il carro armato di nuova generazione T-14 “Armata”, un autentico gioiello della tecnologia militare. Tuttavia, a sette anni di distanza, sul teatro bellico ucraino neanche l’ombra del T-14 “Armata”. Cosa per nulla strana se si considera che, secondo i dati pubblici, gli “Armata” in dotazione delle forze armate russe non sarebbero più di una trentina. La produzione in serie del carro è stata rimandata in continuazione e, secondo quanto annunciato dalla compagnia Rostec, sarebbe infine iniziata soltanto alla fine di dicembre del 2021, troppo tardi per avere un impatto sul primo anno di guerra. Ma anche tenendo conto di ciò appare assai improbabile che il T-14 avrà alcun ruolo nelle forze corazzate russe del futuro: la ricchissima componentistica elettronica di cui è equipaggiato è infatti di produzione occidentale, e si trova attualmente sotto sanzioni. La Russia insomma non è in grado di garantire un ciclo completo di produzione di questo carro armato.
Questa storia è la dimostrazione del fatto che spesso le innovazioni della tecnologia bellica hanno una valenza puramente propagandistica e interessano poco o nulla lo stato reale delle forze armate.
Passi l’assenza del T-14, ma anche il carro armato T-90, la punta di diamante (secondo la propaganda ufficiale) delle unità corazzate della Federazione Russa negli ultimi vent’anni, si è visto ben poco in Ucraina. Il suo impiego è stato modesto, ma semplicemente perché modesti sono i suoi numeri nell’esercito. La spina dorsale delle unità corazzate russe è ancora costituita dai vecchi T-72 e T-80, che, sebbene profondamente modernizzati, sono progetti di epoca sovietica che oggi soffrono di un architettura ormai obsoleta. Certo la situazione non è così grave se si considera che gli ucraini si basano principalmente su mezzi ancora più vecchi: versioni modernizzate del vetusto T-64. Tuttavia è significativo che la tanto decantata modernizzazione dell’esercito russo sia in larga misura fumo negli occhi. E ciò non riguarda solo i carri armati ma praticamente qualsiasi tipologia di veicolo, velivolo o pezzo d’artiglieria.
Le nuove tecnologie sono state acquistate dal Ministero della Difesa in quantità omeopatiche, appena sufficienti per fare scena nelle parate militari e per equipaggiare alcune unitàdi professionisti. Le tanto decantate innovazioni della tecnologia militare russa semplicemente non sono state prodotte in quantità sufficienti per avere un impatto visibile sul campo di battaglia di una guerra convenzionale.
Un caso forse ancora più emblematico dei carri armati sono però i droni. Già a marzo ci si era resi conto che l’esercito russo ne era quasi completamente privo, fossero droni da ricognizione, d’attacco o kamikaze. L’Ucraina invece risultò subito esserne ben equipaggiata, anche a livello delle piccole unità di fanteria. I droni sono una componente fondamentale della guerra moderna, come molti conflitti degli ultimi anni hanno chiaramente mostrato. I droni d’attacco svolgono di fatto la funzione degli elicotteri d’assalto, risultando più economici e per diversi parametri più efficaci. I droni da ricognizione sono fondamentali sia per le unità di fanteria: permettono ad esempio di scovare a buona distanza gli spostamenti e le imboscate dei soldati nemici. Ma sono ancora più utili per coordinare il fuoco dell’artiglieria, che diventa così estremamente più precisa. I droni kamikaze, in linguaggio tecnico chiamati munizioni circuitanti, sono invece un sostituto molto più economico e versatile di molti missili “intelligenti”.
Le forze armate russe all’inizio di quest’anno ne erano quasi completamente sprovviste. L’esercito ucraino invece, grazie ad otto anni di rifornimenti da parte della NATO, non ne riscontrava la minima carenza. Anche in questo caso dunque il Ministero della Difesa russo ha trascurato l’ammodernamento dell’esercito, con conseguenze molto pesanti sul corso dei combattimenti nei primi mesi di guerra. In confronto agli ucraini, che potevano perlustrare il territorio dall’alto in tutta comodità, le unità russe erano praticamente cieche. Tutto ciò nonostante il budget statale avesse fornito al Ministero i fondi necessari per implementare la “dronizzazione” dell’esercito: soldi ancora una volta finiti chissà dove. Fino a questo momento oltre il 90% di droni da ricognizione impiegati al fronte sono stati acquistati dalle associazioni di volontari, e non dal Ministero. Senza il contributo dei volontari la situazione sarebbe catastrofica.
Ultimamente si parla molto dei droni-kamikaze iraniani Shahed-131, che stanno terrorizzando il sistema energetico ucraino. Appare a dir poco assurdo che la Russia, con risorse e know-how molto superiori a quelli iraniani, non sia riuscita a implementare una propria produzione di massa di droni militari, e li debba comprare dall’Iran. Pare infatti che Teheran, nonostante sia da lungo tempo sottoposto a un pesante regime di sanzioni, abbia allestito una vasta produzione di droni militari di progettazione interamente iraniana.
Ancora una volta in terribile ritardo, il Ministero della Difesa russo cerca di correre ai ripari, non senza strafalcioni tragicomici. Ad esempio alla fine di novembre il concern militare “Almaz-Antej”, rispondendo alla grande domanda per un drone da ricognizione interamente russo (quelli usati fino ad ora sono di produzione straniera), ha presentato il suo nuovo quadricottero “Dobrynia”, un modello di produzione “interamente russa” e dal modico costo di 130’000 rubli. A un’analisi più attenta gli specialisti si resero però conto che si trattava semplicemente del drone civile cinese iFlight Evoque F5, con qualche parte modificata similmente a come farebbe uno scolaro copiando i compiti dell’amico e sperando che il maestro non se ne accorga. Questo prodotto si può tranquillamente comprare online per 34’000 rubli. Giusto un altro esempio di quanto la corruzione sia radicata nell’apparato militare della Federazione Russa.
La superiorità della Russia si concentra principalmente nei seguenti fattori: una rilevante superiorità numerica in pezzi d’artiglieria e mezzi corazzati; sistemi missilistici a lunga gittata che possono colpire tutto il territorio ucraino; un’aviazione ancora potente, a fronte di quella decimata del nemico.
Parrebbe che ciò sia sufficiente per vincere la guerra, ma così non è. L’Ucraina riesce a compensare questi deficit con un serio vantaggio in altri settori. Uno di quelli più significativi è la ricognizione. Come spiegato prima, ciò è dovuto a un più vasto impiego di droni, ma anche e soprattutto a una flotta di 500 satelliti che la NATO ha messo a disposizione di Kiev, ben più di quanti siano a disposizione delle forze aero-spaziali russe. Detto in parole povere, l’Ucraina sa sempre di più sui russi di quanto la Russia non sappia degli ucraini. I relativi vantaggi strategici e tattici non hanno prezzo.
Il vantaggio della ricognizione è enormemente potenziato grazie a Starlink, il sistema di internet satellitare di Elon Musk che garantisce a tutto l’esercito ucraino, dal generale al sergente, comunicazioni sicure e aggiornamenti in tempo reale sugli spostamenti del nemico. Le forze russe invece non solo mancano di accesso a internet, ma spesso persino di comunicazioni radio protette. Tutto ciò rende più efficace il fuoco dell’artiglieria ucraina, che compensa la propria inferiorità numerica con una maggiore precisione. Ciò è particolarmente evidente con i sistemi lanciarazzi HIMARS forniti a Kiev dagli Stati Uniti: essi giovano di un sistema di puntamento satellitare che non ha analoghi nelle forze armate russe.
Le competenze del corpo ufficiali ucraino sono mediamente più alte. Ciò riguarda in primo luogo gli alti quadri dell’esercito, che, come spiegato prima, in Russia non brillano per genio militare. Certo nemmeno i generali ucraini sono dei talenti strategici, ma sono coadiuvati dai migliori specialisti del Pentagono e degli altri Stati membri della NATO. Così si spiega, in parte, lo sbalorditivo fallimento della prima fase dell’Operazione militare speciale.
Infine, a fronte dello svantaggio nei mezzi pesanti, gli ucraini sono messi decisamente meglio con l’equipaggiamento personale dei soldati, che per i russi è invece un vero disastro. A tutto ciò bisogna aggiungere quanto spiegato nel precedente articolo, ossia che l’Ucraina gode di una soverchiante superiorità numerica negli effettivi.
Conclusioni
L’insieme di tutti questi fattori ha portato alla situazione sul campo che vediamo oggi. Nessuno degli obbiettivi annunciati dell’Operazione Militare Speciale ad oggi è stato raggiunto (come esposto nel primo articolo). La Russia ha perso oltre la metà dei territori conquistati all’inizio dell’operazione e oltre un mese fa ha preso la difficile decisione di abbandonare anche Kherson.
Ora il fronte si trova in uno stato di sostanziale stallo, senza grosse manovre offensive né da una parte né dall’altra. L’offensiva in atto su Artyomovsk (Bakhmut per i nazisti) è da considerarsi locale, siccome in caso di successo avrebbe risultati meramente tattici: superato infatti Artyomovsk i russi si troverebbero davanti alle fortificazioni della conurbazione di Slavyansk-Kramatorsk.
Tuttavia, se il fronte è fermo la tensione non accenna a calare. Il 21 dicembre Vladimir Putin ha partecipato al Collegio allargato del Ministero della Difesa: nel suo discorso, ha direttamente e indirettamente confermato molti dei problemi esposti in questo articolo. Come si suol dire, riconoscere il problema è il primo passo verso la sua soluzione. Dettaglio importante: per la prima volta Putin ha pronunciato la parola “guerra”. Contemporaneamente, il Vicepresidente del Consiglio di Sicurezza Dmitrij Medvedev è volato a Pechino per incontrare Xi-Jinping, pare accompagnato da diversi aerei da carico militari. È facile intuire quale tipo di merci cinesi essi abbiano riportato in Russia.
Dall’altra parte della barricata Volodymyr Zelensky è volato invece a Washington, nel suo primo (ufficiale) viaggio all’estero dall’inizio della guerra. Rivolgendosi al parlamento americano, Zelensky ha mendicato altri aiuti economici e militari, prontamente garantiti. Significativa appare la cessione di un sistema missilistico antiaereo “Patriot”, che con ogni probabilità non sarà l’ultimo. Gli attacchi missilistici russi alla rete elettrica del paese potrebbero presto farsi più difficili.
Insomma, né da una parte né dall’altra si notano aperture al negoziato, che pure molti analisti ritenevano probabili in seguito al ritiro russo da Kherson. Al contrario, ora si moltiplicano le voci che prevedono un’offensiva nelle prossime settimane.
Ad oggi sembra che i rapporti di forza stiano tornando a favorire la Russia. Il talento strategico del generale Surovikin è ancora tutto da dimostrare: anche lui ha la sua parte di responsabilità nel fiasco iniziale dell’Operazione. Ma Surovikin, al contrario di Shoigu, è un generale vero che si è fatto la gavetta nell’esercito scalando dal basso tutta la gerarchia. Infatti da quando lui ha assunto il comando delle operazioni alcuni risultati già si vedono: le forze russe sono riuscite a stabilizzare un fronte che dopo la disfatta di Balakleya scricchiolava da tutte le parti. Per farlo Surovikin ha dovuto compiere scelte difficili e politicamente impietose, come il ritiro da Kherson, ma il rischio di un crollo generale, che a settembre era palpabile, appare ormai scongiurato. La campagna di bombardamento delle strutture energetiche dell’Ucraina crea difficoltà logistiche all’esercito nemico ma ancor di più minaccia le città ucraine di una catastrofe umanitaria nel mezzo dell’inverno, con le inevitabili ricadute che ciò avrebbe sul morale delle truppe ucraine. Inoltre nelle prossime settimane in Russia dovrà concludersi l’addestramento dei mobilitati, che giungeranno tutti al fronte equilibrando la disparità numerica con il nemico. È molto probabile che nei prossimi mesi sarà annunciata un’altra ondata di mobilitazione. Se la superiorità numerica tornerà a favore della Russia, è ben possibile, oltre che strategicamente logico, che Mosca cercherà di colpire da una direzione inaspettata e magari recuperare l’iniziativa strategica che ha perso nel corso dell’estate.
Questo scenario sembra plausibile se la situazione dovesse proseguire sul trend attuale, che vede l’Ucraina ormai quasi del tutto dipendente dai rifornimenti stranieri, peraltro insufficienti a soddisfare tutte le sue necessità belliche. Ma è un “se” molto grasso. Al sottoscritto appaiono eccessivamente ottimistiche molte delle speculazioni riguardo agli aiuti della NATO, che parrebbe “raschiare il fondo del barile” dei propri depositi militari e presto non avrà più nulla da dare a Kiev. Ciò non tiene conto che diversi paesi della NATO, tutti dell’ex Patto di Varsavia, hanno già iniziato a produrre armamenti e munizioni per l’Ucraina. I paesi dell’Europa Occidentale potenzialmente possono fare lo stesso. L’assenso all’invio dei “Patriot” conferma inoltre la tendenza degli Stati Uniti ad aumentare la caratura degli aiuti, che con il passare dei mesi si estendono a sempre nuove categorie di armamenti. In questo senso il potenziale economico del blocco atlantico è di gran lunga superiore a quello russo. Il problema sta tutto in quanto l’Europa sia disposta a sacrificare pur di sconfiggere la Russia.
Quanto esposto in questo articolo avrà conseguenze di ampia portata sulle dottrine militari dei paesi europei. In un panorama internazionale mai così instabile, è probabile che molte nazioni recupereranno una prospettiva di massa delle proprie forze armate. La fine della pax americana del resto impone a tutti l’onere di occuparsi della propria sicurezza, venendo a mancare lo sceriffo.
La guerra in Ucraina ha mostrato con chiarezza che la grande potenza militare russa era in larga parte un bluff. Molti lo sapevano già, ma nessuno fino ad ora aveva avuto il coraggio di “vedere il bluff” della Russia. Ora che il tabù è infranto, viene meno anche la paura e con essa il fattore deterrente che è presupposto della pace.
Ciò è un monito anche per le potenze europee, perfettamente coscienti che anche i loro eserciti sono in buona misura una finzione. E i pericoli che ne conseguono travalicano di gran lunga i confini del continente.