Il viaggio nel silenzio: uno strumento di lotta culturale

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INTRODUZIONE

La storia è fatta dai grandi uomini. Questo assunto è stato fondamento dello studio della storia fin dall’antichità e, sebbene nel corso del ‘900 ci siano state scuole che hanno cercato di contrastare la cosiddetta histoire evenementielle (ovvero storia degli eventi; per esempio, Marc Bloch e Luciene Febvre fondarono la rivista Annales che ripudiava la narrazione degli eventi in favore della storia sociale, cioè l’analisi delle società e la funzione che al suo interno svolgevano gli usi, i costumi e le mentalità), è vero ancora oggi che se si volesse approcciare con interesse un determinato periodo storico, ciò sarebbe legato indissolubilmente all’analisi degli accadimenti politici e militari che ne stanno all’origine e che ne producono gli effetti.

È altrettanto vero, però, che lo storico non può soffermarsi a una semplice enumerazione di eventi avvenuti in passato, ma deve anche essere in grado di trarre un giudizio su questi accadimenti e sulle azioni dei vari personaggi studiati, basandosi sulle proprie percezioni personali, ma anche cercando di capire quale potesse essere il comune sentire. Ecco che allora emerge la necessità di annoverare tra le fonti storiche anche le opere prodotte dagli intellettuali e dagli artisti coevi, poiché pregne dei sentimenti e delle sensazioni che emana la propria contemporaneità.

Oggi la gran parte delle opere del passato che possiamo ammirare sono interpretabili più da un punto di vista tecnico e contenutistico, che non dal loro significato politico. Ma questo è un limite della nostra generazione, della nostra realtà contemporanea, che negli ultimi cinquant’anni ha percepito l’aspetto politico dell’arte solo dal punto di vista della cesura con il passato, e non come un elemento di contrasto al potere costituito. Il compito di questo studio, invece, è di dimostrare che fare qualcosa del genere si può, ovvero che la resistenza culturale è possibile, e anzi deve essere uno strumento di lotta.

Questo articolo vorrebbe inaugurare una serie di scritti dedicati alla figura del regista greco Thòdoros “Thèo” Angelòpoulos, e in particolare sui primi anni della sua carriera di critico e cineasta, poiché si vuole far luce su un aspetto ormai forse dimenticato dai più, ovvero di come sia possibile fare politica attraverso l’arte. Sia chiaro, l’arte e la cultura hanno sempre avuto un ruolo politico, poiché forme di espressione di una determinata realtà e modo per esternare precisamente i principi di un’ideologia sintetizzandoli con la quotidianità. Ma la cultura può essere soprattutto una forma di espressione della resistenza, di contrasto intellettuale a forme di imposizione del potere per il tramite di azioni atte a dimostrare, in molti casi, che il re è nudo.

Theo Angelopoulos (d’ora in avanti verrà chiamato in questo modo) è un esempio di questo tipo di applicazione della politica all’arte, ha cercato di mettere in luce tutti i drammi e tutte le ferite ancora aperte della società ellenica del secolo scorso (e che ancora oggi la segnano profondamente) mettendoli in relazione con la sua contemporaneità, cioè in un periodo e in un modo particolari: durante la dittatura dei colonnelli e pubblicando dei film di denuncia della dittatura in quello stesso Paese. Ma in che modo, ci si chiederà? La dittatura dei colonnelli non è stata forse segnata da un controllo capillare della società, con limitazioni precise delle libertà individuali e collettive, tra cui un controllo minuzioso da parte degli organi di censura?

Ebbene fu proprio grazie alla sua arte e alla sua maestria che Angelopoulos riuscì a eludere questo controllo, utilizzando una tecnica che diventerà poi il suo marchio di fabbrica, la sua cifra stilistica: il silenzio. Coloro che hanno avuto la possibilità di vedere uno qualsiasi dei film di questo cineasta, lo conosceranno come “il regista dei silenzi” poiché nei suoi film egli è riuscito a trasformarli in un elemento fondamentale, capace di catalizzare l’interesse dello spettatore permettendogli di essere attratto magneticamente dalle sole immagini.

Ma il silenzio nei primi film di Angelopoulos assume uno specifico ruolo “politico”: sono una forma di autocensura. Sapendo che non avrebbe potuto sottoporre all’organo ministeriale che si occupava del controllo della qualità dei prodotti cinematografici un copione nel quale comparissero riferimenti alla Giunta dei colonnelli, egli decise di rivolgersi agli spettatori tramite il non-detto. In questo modo poté aggirare la censura, trattando al tempo stesso i propri spettatori con molto rispetto e considerandoli abbastanza intelligenti da poter inferire autonomamente i riferimenti tra gli eventi del passato e quelli del presente.

Per comprendere da dove scaturisce questo discorso, si è pensato di iniziare con un’introduzione alla storia narrata nelle riprese del regista e con una breve spiegazione di quel il movimento cinematografico greco del quale fece parte e che diede una forte impronta alla controcultura ellenica. Sarà però necessario sottolineare come le conclusioni alle quali si giunge in questi articoli siano puramente personali, anche se legate a un’analisi approfondita sia del materiale filmico (com’è logico che sia) sia di un insieme di articoli pubblicati sulla rivista ΣύγχρονοςΚινηματογράφος (Synchronos Kinimatogràfos, Cinema Contemporaneo), un periodico di cinema che nacque nel 1969 e che ebbe tra i suoi fondatori proprio lo stesso Theo Angelopoulos, assieme ad altri autori che appartenevano tutti all’area ideologica della sinistra (ciò non fu mai reso palese, poiché una pubblicazione politicamente schierata contro il regime dittatoriale sarebbe stata facilmente messa a tacere dagli organi di censura). Prima però occorrerà spiegare il contesto storico, geografico e sociale al quale si fa riferimento, inserendovi la figura di Theo Angelopoulos. In questo modo si potrà comprendere come mai nell’analisi si prenderà in considerazione anche il primo film di questo autore, un film che non ha una caratterizzazione storica netta, ma è invece un film di denuncia sociale con il quale si voleva rendere evidenti l’omertà e la chiusura della società ellenica, la quale proprio per questa sua conformazione aveva accettato di essere bistrattata durante tutto il Novecento.

LA GRECIA TRA LA PRIMA GUERRA MONDIALE E IL 1977

Theo Angelopoulos, nato ad Atene nel 1935, prese in esame, nella sua trilogia della storia, un periodo preciso e limitato della storia greca, e ciò fu dovuto a due motivi specifici: da un lato volle dimostrare che c’era una continuità nelle vicissitudini storiche e politiche che avevano portato lo Stato ellenico dalla dittatura di Ioànnis Metaxàs alla dittatura dei colonnelli; dall’altro c’era l’aspetto personale. In un’intervista del 2008 al programma ΗΖωήείναιαλλού (I zoì ìne allù, La vita è altrove) del canale televisivo EPT1 (ERT1) il regista affermò: «Il mio mondo riguarda gli anni della mia infanzia. Non faccio altro che una continua autobiografia, parlando delle cose che mi toccarono, che mi ferirono, che amai, che vissi, ciò che in pratica è la mia vita.»

L’evento cardine per capire la storia della Grecia contemporanea è la fine alla ΜεγάληΙδέα (Megàli Idèa, Grande Idea), la concezione ideologica secondo la quale lo stato greco sarebbe dovuto rientrare in possesso di tutti i territori che erano stati storicamente abitati da una maggioranza ellenica. Molto in auge tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, vide nel primo ministro Elefthèrios Venizèlos uno dei maggiori assertori di questa teoria. Fu sua l’idea di invadere l’Asia Minore, salvo poi essere destituito nel 1920, evento che portò alla καταστροφή (catastrofe) del 1922, ovvero la disfatta ellenica nella guerra greco-turca, un conflitto iniziato al termine della Prima Guerra Mondiale per approfittare della caduta dell’Impero Ottomano e poter conquistare la Ionia, territorio che anticamente era parte del mondo greco e la cui città principale era Smirne. Accecati dalla brama di conquista, i greci si spinsero troppo in là, puntando verso Ankara senza fare i conti con la neonata nazione turca sotto l’egida di Mustafa Kemal “Atatürk”, che in poco tempo mise in atto una controffensiva che portò alla tragedia di Smirne, ovvero il massacro perpetrato nei confronti dei greci e degli armeni presenti in quella città, costretti a fuggire anche a nuoto per non essere uccisi dall’esercito turco, e allo scambio dei popoli. Questi eventi segnarono e segnano ancora oggi una cicatrice profonda nel mondo greco, e sono alla base di tutta la storia del Paese degli ultimi cento anni; sul momento, ciò comportò il definitivo abbandono delle velleità di riconquista dei territori dell’Asia Minore.

A seguito di questi eventi, nel 1924 venne abolita la monarchia e venne introdotta la repubblica, la quale rimase in vigore per undici anni, fino al 1935 (anno di nascita del regista) quando venne richiamato sul trono re Giorgio II. Questi, preoccupato che il crescente disagio delle classi operaie potesse sfociare in tentativi rivoluzionari, concesse il 4 agosto 1936 a Ioànnis Metaxàs di sospendere il parlamento e la costituzione e di assumere pieni poteri. Nacque così un regime di stampo fascista che durò cinque anni, fino al 1941 anno della morte del dittatore. Questo evento sarà reso iconico da Theo Angelopoulos nel suo secondo film, Μέρεςτου ’36 (Giorni del ’36, 1972)che riguarda proprio alcuni eventi antecedenti la presa del potere da parte di Metaxàs, e sul quale ci si soffermerà in uno dei prossimi testi.

Il 28 ottobre 1940 venne presentato l’ultimatum per l’annessione del paese ellenico all’Italia da parte di Benito Mussolini, alla quale Metaxàs oppose il rifiuto, facendo entrare il paese nella II Guerra Mondiale. L’invasione italiana nel paese fu un fallimento tale da richiedere l’intervento delle forze armate naziste, le quali entrarono nel conflitto nel 1941 e in breve tempo riuscirono a prendere il controllo del paese occupando Atene, il Peloponneso, una parte della Grecia continentale e le isole del mar Egeo. Le regioni del nord, in particolare l’Epiro e la Macedonia, divennero l’ultimo caposaldo della resistenza al nazi-fascismo, dove operarono diverse formazioni partigiane, tutte caratterizzate da un chiaro indirizzo politico. Tra queste, un ruolo di primo piano venne assunto dai comunisti stalinisti dell’EAM, Εθνικό Απελευθερωτικό Μέτωπο (Fronte nazionale di liberazione), che cambiò poi nome in ELAS, Ελληνικός Λαϊκός Απελευθερωτικός Στρατός (Esercito popolare greco di liberazione), i quali combatterono a lungo e strenuamente per liberare le loro terre, finché nel 1944 i tedeschi furono costretti alla ritirata, anche in seguito alla necessità di dirottare le truppe su altri fronti. Con la liberazione dai tedeschi venne formato un governo di unità nazionale, guidato da Geòrgios Papandrèou, nel quale la componente comunista ebbe un ruolo inizialmente molto marginale, poi venne espulsa del tutto. Ciò provocò la reazione delle forze partigiane che iniziarono ad opporsi all’esercito regolare. L’esercito era guidato dal generale Papàgos, personaggio molto vicino a Metaxàs durante tutta la sua dittatura e perciò considerato indegno di rappresentare il Paese da parte dei comunisti (dopo la guerra, divenne primo ministro in seguito alle elezioni del 1952). Scoppiò così la sanguinosa guerra civile greca, un terribile scontro fratricida che si protrasse dal 5 dicembre 1944 al 29 agosto 1949 e che vide migliaia di morti da entrambi gli schieramenti, oltre a una netta divisione del territorio ellenico in due parti: il nord, le montagne, sotto il controllo dell’ELAS e dei comunisti, e il sud controllato dal governo di unità nazionale, sostenuto tenacemente dalla Gran Bretagna.

Per comprendere l’importanza che ebbe la guerra civile per i greci, basti pensare che Angelopoulos dedicò due dei suoi film della trilogia della storia proprio a questo argomento, ovvero ΟΘίασος (La recita, 1975) e ΟιΚυνηγοί (I cacciatori, 1977) ognuno dei quali meriterà un’analisi a sé poiché particolarmente importanti non solo per i contenuti espressi, ma perché girati in un periodo storico pregnante. A questi vanno aggiunti Ταξίδι στα Κύθηρα (Taxìdi sta Kythira, 1984)e Το λιβάδι που δακρύζει (La sorgente del fiume, 2004), di molto successivi, ma che testimoniano come gli eventi della prima metà del ‘900 abbiano segnato profondamente la percezione della realtà da parte dell’autore. Percezione che non può essere scissa da un altro elemento fondamentale della sua cinematografia: l’ambientazione. Tutti i film di Angelopoulos, ad eccezione di Μέρεςτου ’36 (Giorni del ’36), sono ambientati nel Nord della Grecia, per lo più in Epiro, nella stagione invernale, donando agli spettatori la visione di paesaggi per nulla canonici, grigi, piovosi, montani. Quei paesaggi visti per anni dai partigiani comunisti, che proprio in quei territori si nascondevano e combattevano.

Dopo la fine del conflitto e la sconfitta delle formazioni comuniste, si cercò di ristabilire la normalità nel Paese. Nel 1952 si tennero le prime elezioni politiche, nelle quali stravinse il candidato della destra Papàgos. Il generale governò la Grecia fino alla sua morte, nel 1955, dopo la quale fu sostituito dal più moderato e democratico Konstantìnos Karamanlìs. Il suo governo rimase in vigore fino al 1963, anno in cui il re Costantino II lo esautorò delle sue funzioni e fece indire nuove elezioni, nelle quali vinse l’Unione di Centro (‘Eνωσις Κέντρου) di Geòrgios Papandrèou. Poiché legato agli ambienti del socialismo (soprattutto suo figlio Andrèas, che venne accusato nel 1964 di aver progettato un complotto, chiamato Ασπίδα (Aspìda) assieme a dei militari di idee socialiste per assumere il potere tramite un colpo di stato), non venne visto di buon occhio dal re, il quale si oppose fortemente al suo governo, causandone il fallimento nel 1964. Il continuo avvicendarsi di governi deboli obbligarono il re a indire delle elezioni per il 27 maggio 1967, nelle quali sembrava fosse scontata una grande vittoria della coalizione guidata proprio da Papandrèou. Per questo motivo gli USA, attraverso la sempre presente CIA, predisposero un piano per attuare un colpo di stato militare guidato dalle alte cariche dell’esercito greco, con il solito intento di prevenire l’avvento di forze socialiste al potere. La messa in atto di questo piano non avvenne però nel modo previsto, poiché esso venne sì attuato la notte del 21 aprile 1967, ma da parte di un gruppo di colonnelli, i quali assunsero il potere, sospesero la costituzione e instaurarono una durissima dittatura militare che durò sette anni.

In questo periodo ci fu una forte limitazione delle libertà personali dei cittadini, tra le quali l’istituzione di campi di prigionia per i dissidenti politici, ma anche forme di controllo sociale molto più semplici e subdole, come la limitazione dei posti a sedere ai tavoli dei bar (in quel caso si voleva evitare che ci potessero essere cospirazioni contro il governo). La Giunta (Χούντα) fu soggetta a una forte opposizione propugnata da tutte le grandi potenze mondiali che fece sì che il Paese si ritrovasse isolato diplomaticamente, a eccezione della Spagna di Franco e del Portogallo di Salazar. Il governo, guidato da Geòrgios Papadòpoulos, sopravvisse a lungo, ma la fermezza dei colonnelli si scontrò con la crescente opposizione al regime e raggiunse il suo apice con i fatti del Politecnico di Atene. Il 17 novembre 1973, dopo tre giorni di occupazione della facoltà da parte di studenti e altri civili che manifestavano la loro opposizione al regime, il governo ordinò all’esercito di sfondare con i carri armati i cancelli della sede universitaria e di sedare la rivolta nel sangue (una ricerca condotta dalla National Hellenic Research Foundation nel 2003 indicò in 24 il numero accertato dei morti). Ciò portò a un contro colpo di stato compiuto da uno dei membri della Giunta, il generale Dimìtrios Ioannìdis, il quale destituì Papadòpoulos e assunse il ruolo di guida del governo, ruolo che mantenne fino al luglio 1974, quando fu costretto a dimettersi e porre fine alla dittatura per evitare di entrare in guerra contro la Turchia in seguito ai fatti di Cipro.

Nacque così nuovamente un governo di unità nazionale guidato da Konstantìnos Karamanlìs, il quale si adoperò perché venisse attuata una transizione politica verso la democrazia. Negli anni successivi si tennero i processi ai militari coinvolti nel golpe e si giunse al pieno superamento della fase dittatoriale con le elezioni del 1977 che videro la vittoria di Konstantìnos Karamanlìs.

Tutte queste vicende si innestano nella vita di Theo Angelopoulos, e da lui vennero narrate nei film della trilogia della storia, anche se va sottolineato il fatto che la sua ricostruzione degli avvenimenti, come si è detto, non fu super partes, ma al contrario rispecchiano una posizione politica precisa, di sinistra e quindi nettamente avversa alla dittatura di Metaxàs, al collaborazionismo con i nazisti, allo schieramento “istituzionale” durante la guerra civile, e in particolare al generale Papàgos, ai servizi segreti e infine ai colonnelli, tutti rei di aver sottomesso e soggiogato la popolazione greca a dei regimi dittatoriali di destra.

D’altro canto va anche sottolineato come il regista in questione non si espose così fortemente contro il regime come altre figure ebbero modo di fare, patendo in prima persona la persecuzione politica, su tutti, il più grande compositore che la Grecia abbia mai avuto, Mìkis Theodoràkis, che fu internato in diverse colonie penali durante gli anni della dittatura. Le terribili condizioni in cui versò per lunghi anni lo segnarono profondamente dal punto di vista fisico e morale, ma gli diedero anche una grande ispirazione per una parte consistente delle sue opere più tarde.

Angelopoulos invece non fu soggetto a questo tipo di persecuzione, ma forse ciò fu dovuto alla sua capacità di non essere attaccabile sulle sue opere, poiché prive di quegli elementi che potrebbero farlo finire sotto la lente d’ingrandimento degli organi di controllo dello Stato. O meglio, di poter essere giudicato colpevole da quegli stessi organi.

NUOVO CINEMA GRECO

Al Festival del Cinema di Venezia del 1975 si tenne un Incontro con il cinema greco al quale presero parte alcuni tra i maggiori esponenti di un movimento culturale in forte ascesa, chiamato Nuovo Cinema Greco. Era la prima volta che un evento di questo genere si teneva fuori dai confini nazionali, e ciò portò alla ribalta i nomi di alcuni registi ellenici che negli anni successivi avrebbero avuto molto successo nel loro paese.

La corrente del Nuovo Cinema Greco, di cui faceva parte Theo Angelopoulos, nacque come reazione alla situazione cinematografica che vigeva ormai da trent’anni nel paese, segnata dallo strapotere di alcune case di produzione e di distribuzione come la ΦίνοςΦιλμς (Fìnos Films) le quali perseguivano delle politiche commerciali orientate alla grande distribuzione, a scapito della qualità dei loro prodotti. In questa situazione di monopolio del cosiddetto cinema commerciale, scaturì la reazione di un gruppo di registi, il cui obiettivo era «la ricerca di un’estetica per la produzione cinematografica del Paese, che avrebbe portato con efficienza alla realizzazione di un cinema nazionale in senso lato: partecipazione e assimilazione delle tendenze che arrivano dall’estero e, soprattutto, scoperta dei modi di introduzione di nuove tematiche che possano rinforzare il suo carattere nazionale.» Dunque, la loro non fu una reazione solo culturale, ma fu dettata anche da motivazioni politiche.

Dopo che i colonnelli presero il potere il 21 aprile 1967, «il cinema greco nazional-popolare economicamente si rafforzò grazie al governo militare», ma al tempo stesso alcuni cineasti e critici cinematografici di sinistra sentirono la necessità di opporsi al regime compiendo una sorta di resistenza culturale. Il primo passo fu la creazione della rivista ΣύγχρονοςΚινηματογράφος (Cinema Contemporaneo) nel 1969, fondata tra gli altri anche da Theo Angelopoulos, il quale fino a quel momento si era distinto come critico cinematografico per il giornale socialista ΔημοκρατικήΑλλαγή (Dimokratikì Allaghì, Cambiamento Democratico) e per aver girato un cortometraggio nel 1968 intitolato ΗΕκπομπή (I Ekpombì, La Trasmissione). Sulle colonne di questa rivista iniziarono da subito i dibattiti sulla necessità di rivoluzionare l’intero assetto della cinematografia ellenica in modo da dare più spazio a una produzione che fosse anche di nicchia, ma di qualità.

L’anno successivo venne compiuto il passo decisivo per la nascita di un movimento coeso di registi indipendenti che affrontassero tematiche sociali e politiche nei loro film, e non si interessassero al solo intrattenimento del pubblico. Nel 1970, in occasione dell’undicesima edizione del Festival del Cinema di Salonicco, la rassegna più importante di cinema in Grecia, vide la partecipazione del «primo film del Nuovo Cinema Greco», ovvero Αναπαράσταση (Anaparàstasi, Ricostruzione di un delitto) di Angelopoulos. Grazie alla vittoria dei premi più importanti della rassegna, la corrente del Nuovo Cinema Greco iniziò a ricevere la tanto agognata risonanza a livello nazionale, che venne acquisita definitivamente due anni dopo, quando alla 13° rassegna parteciparono quasi solamente film di registi appartenenti a questo movimento.

L’ascesa del movimento proseguì negli anni seguenti finché nel 1975 la situazione mutò in un modo che a posteriori risulta molto evidente per le motivazioni, ma ai tempi non fu quasi neppure percepito. Il crollo della dittatura dei colonnelli e il ritorno a una fase democratica tolsero la forte base ideologica che aveva spinto gli autori a girare film di denuncia nei confronti del regime, portando a una certa distanza tra i vari registi. Ciò fu acuito anche dal fatto che la comunanza tra i registi era dovuta solamente a motivi ideologici e non stilistici, poiché il Nuovo Cinema Greco non poteva definirsi una scuola, soprattutto perché non era ravvisabile una continuità nelle loro metodologie. Questo aspetto portò anche una forte dose di antagonismo all’interno del gruppo, che raggiunse forse il suo apice nel dibattito tenutosi in occasione del 16° Festival di Salonicco.

Nel settembre del 1969 venne pubblicato il primo numero di Σύγχρονος Κινηματογράφος (Cinema Contemporaneo), in cui fin da subito si metteva in chiaro come l’obiettivo dei redattori sarebbe stato quello di rompere con il passato, poiché non si riconoscevano nella realtà ellenica di quel periodo. Secondo la loro opinione, la qualità era stata messa in secondo piano da parte di quel cinema commerciale che faceva capo alla Finos Films; essi aspiravano invece alla creazione di un movimento che mettesse in primo piano l’aspetto artistico, proponendo un’estetica diversa e ricercando un’altra lingua. Ciò era dettato da un fattore fondamentale: l’estero. Da un lato, tutti coloro che gravitarono attorno al Nuovo Cinema Greco, fossero essi critici, registi o intellettuali, furono influenzati dalle grandi correnti sovversive di altri Paesi (dal Neorealismo italiano alla Nouvelle Vague francese, dal Nuovo Cinema Tedesco alla Nova Vlna cecoslovacca); inoltre, essi avevano come obiettivo principale quello di creare pellicole che fuoriuscissero dai confini nazionali e che permettessero al cinema greco di essere conosciuto anche all’estero, cosa fino a quel momento non riuscita. Come affermano Camerino e Dimitriou nel testo Il cinema greco, pubblicato da Manduria nel 2002, “il regista dentro l’organismo del NEK (ΝέοΕλληνικό Κινηματογράφο, Nuovo Cinema Greco) agiva come arbitro libero e come creatore autonomo. […] Una nuova lingua filmica era il primo ed indispensabile traguardo per riuscire ad allontanarsi dalle vecchie istituzioni cinematografiche,” e per farlo occorreva una revisione totale a tutti i livelli: sociologico, economico, tecnologico, estetico e teorico. Una vera e propria rivoluzione culturale, da portare avanti nel mezzo di una dittatura verso la quale compiere una forma di resistenza intellettuale.

Nell’articolo di apertura del primo numero di Cinema Contemporaneo, risalente al settembre del 1969, veniva riassunta quella che può essere definita la dichiarazione d’intenti degli autori e dei collaboratori della rivista. Intitolato Ο ήλιος ανατέλλει πάντα (O ìlios anatèli pànda, Il sole sorge sempre), in esso venivano presentati i punti di riferimento e gli obiettivi della rivista, la quale avrebbe dovuto «colmare un vuoto totale, dovuto alla mancanza di istruzione cinematografica» in Grecia. Una delle denunce che veniva fatta dai redattori era che fino al 1969 erano stati tradotti in greco solamente sei libri di cinema, e non c’era stata nessuna produzione indigena di testi riguardanti la cosiddetta settima arte. Per questo motivo, gli autori si proponevano come intermediari tra il pubblico e il cinema, inteso non solo come forma d’arte, ma soprattutto come «una forma di espressione dell’animo umano. E solo in una rivista possono esplicarsi tutte le sfaccettature di quest’arte.» Per dimostrare ciò, gli autori del periodico si dichiaravano aperti a dare spazio a qualsiasi punto di vista e a permettere qualsiasi dibattito, purché costruttivo.

La scelta di intitolare la rivista con l’aggettivo contemporaneo, inoltre, non fu dettata dal solo significato letterale del termine, ma viene affermato che il vero senso di questa denominazione stava «nell’aprirsi al futuro, e nel cercare di portare il non-conscio, l’ignorante a crearsi una sua verità». L’obiettivo dichiarato era dunque quello di istruire i lettori, di creare una cultura del cinema che in Grecia mancava del tutto, sia da parte del pubblico sia da parte degli addetti ai lavori, tant’è vero che i redattori arrivarono ad affermare che «la cinematografia greca attuale non ci interessa, poiché per sottosviluppati e ritardati mentali». Affermazioni durissime nei confronti di un mercato che solamente nel 1967 aveva raggiunto il proprio apice, producendo 118 film in dodici mesi per un mercato di 135 milioni di biglietti.

La qualità del cinema greco coevo veniva aspramente criticata non solo nel primo numero della rivista, ma fu denigrata in molte altre occasioni, ad esempio con l’analisi dettagliata del 10° Festival del Cinema di Salonicco. In un breve editoriale firmato dall’intera redazione e che assunse la forma di una lettera rivolta alla direzione del Festival, la rassegna venne definita un fallimento poiché i film presentati «non hanno rilevanza di alcun tipo. Quest’anno la scoperta è stata significativa. Il Festival del cinema muore con il cinema greco […] poiché esso ignora i problemi della Grecia». L’intento politico era evidente: la critica mossa alla direzione del Festival era quella di essere asservita totalmente alla volontà delle grandi case di produzione e distribuzione elleniche, e quindi tale critica era rivolta in modo indiretto anche al regime, il quale voleva propugnare un’immagine della Grecia positiva e presentando una collezione filmica di intrattenimento e di nessuno spessore culturale dava perfettamente questo messaggio.

Si trattava dunque di una netta presa di posizione da parte dell’entourage della rivista, poiché in chiusura si afferma: “È una richiesta antica. Ogni anno si discute, si scrive, si pongono domande. Le abbiamo poste anche quest’anno, con la stessa speranza. Perché non possiamo fare nient’altro se non continuare a urlare con trecento megafoni nelle orecchie dei responsabili. Noi che non consideriamo il cinema come un mercato, ma come una manifestazione culturale. Noi che non consideriamo il cinema come una pastiglia contro l’insonnia, ma una pratica di vita, una teoria e una critica della società. Noi che non consideriamo il cinema una fuga, ma una presa di posizione per l’estenuante ricerca della verità.”

Sarà in questo clima e in questo contesto politico e culturale che inizieranno ad affermarsi diversi autori, stimolati intellettualmente dal confronto e dal dibattito continui e rivolgendosi dunque a un lavoro innanzitutto concettuale, in modo da poter poi mettere in pratica gli ideali sviluppatisi in questo ambiente. E sarà grazie a questi stimoli che Theo Angelopoulos scriverà la sceneggiatura per il suo primo lungometraggio, sul quale ci si soffermerà nella prossima puntata.

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