di 3 DOSI DI CRITICA
A tutti noi è capitato almeno una volta di sentirsi dare dei “complottisti” a causa della propria teoria o ricostruzione dei fatti di un fenomeno sociopolitico. Ricostruzioni che evidenziano come questi fenomeni non accadano per caso, come essi siano chiaramente legati ai nomi di persone o istituzioni influenti, come vi sia un intreccio di dinamiche sotto gli occhi di tutti che richiedono solo uno sforzo interpretativo; dinamiche mosse da interessi ben precisi più o meno sottaciuti, le cui prove però traspariscono anche se le decisioni cruciali della – ormai così la si indica nel linguaggio comune – “cospirazione” sono ovviamente prese in segreto.
A confermare inequivocabilmente una simile versione dei fatti non può che essere un “leak” o una rivelazione effettuata da un cosiddetto “whistleblower” (categoria a cui le sorti toccate ad Edward Snowden, Chelsea Manning o Julian Assange pongono di fronte un chiaro monito…), questo è ovvio. Ma ogni qual volta si cerca di intavolare un discorso costruttivo di analisi attuale politica, storica economica e sociale con qualcuno di cui non si conoscono già le vedute o l’approccio ai temi, il rischio principale è imbattersi in una precisa risposta: “SEH VABBE, GOMBLOTTOH”, o comunque qualcosa del genere.
Esatto, il grande paradosso di vivere in una società moderna strutturata in livelli estremamente complessi, con istituzioni capaci di accumulare anche segretamente abnormi quantità di informazioni e conoscenze, con notevoli interessi nazionali e transnazionali che lottano continuamente per prevalere o preservarsi tagliando le ali o relegando nella spirale del silenzio chi vi si oppone, è quello di doversi imbattere in chi nega genuinamente e con pochi concetti l’appena menzionata evidenza e i tentativi di esporla.
Così magari un giovane politico che anni fa gridava di non sanzionare un paese in conflitto ed ora firma decreti contenenti tali sanzioni stesse ha semplicemente cambiato idea; o gli episodi sterilmente distruttivi che attirano critiche e condanne durante le occasioni più cruciali di protesta pubblica sono sempre e solo imputabili ai deliranti fanatici della causa; oppure il rovesciamento di un presidente attraverso un colpo di stato si realizza perché qualche mese prima un gruppo di persone che la pensano diversamente decidono di trasformare il loro “think different” in un “just do it!” e organizzano con mezzi di fortuna la cosa, magari chiedendo solo qualche risorsa o soldino in più ad altri gentili governi più grossi, come in uno spontaneo rapporto padre-figlio o banca-cliente. Oppure ancora, tutte le politiche più liberticide e securitarie che un esecutivo statale e il suo think-tank di tecnici adottano per fronteggiare una presunta “catastrofe” sono solo le impavide decisioni improvvisate di un gruppo di uomini dal cuore d’oro che si trovano a ricoprire, loro malgrado, il ruolo di timonieri e cercano di mantenere in equilibrio la nave durante l’inattesa burrasca…
Mi fermo qui con la lista di parodie patetiche della realtà. Ritorniamo al soggetto principale, ovvero gli “anti-complottisti”. La questione cruciale che mi propongo di affrontare in questo articolo è: come si è arrivati a questa mentalità più o meno diffusa di rifiuto delle cosiddette “cospirazioni”? Com’è che diverse persone non riescono a cogliere le evidenze o ad accettare l’idea che certi dispiegamenti di eventi di enorme portata sociale, politica o economica siano stati in buona parte guidati o decisi dalle persone più influenti nelle varie istituzioni pubbliche o private?
Quali sono le fallacie interpretative e percettive, i “falsi miti” e i loro fattori determinanti che confinano entro un paraocchi cognitivo anche chi, tutto sommato, ci sembrava dotato di un certo spirito critico ma non riesce proprio a digerire certe descrizioni del reale?
Sia chiaro, le teorie o le spiegazioni che appaiono strampalate e che si rivelano pure speculazioni senza sufficienti fondi di verità ci sono eccome, ed anzi costituiscono un primo elemento che gioca un importante ruolo nella percezione distorta dei “complotti”: a suon di udire voci di risonanza pubblica che rimarcano l’associazione tra i concetti di cospirazione/occultamento di verità da parte del potere e i sostenitori della Terra piatta o di altre cose simili, è chiaro che la mentalità comune venga infarcita di pregiudizi, condizionata a collegare ciascuna possibile teoria esplicativa di “ disegni segreti” con le sue versioni più grottesche, pubblicizzate oppure messe in giro apposta per diffondere reazioni di repulsione. Ma questo non è che il primo di una serie, a mio parere più lunga e articolata, di “errori interpretativi” e fattori causali.
- IL “DOPPIO POTERE” DEI MEDIA
Il potente ruolo dei media nel dipingere ed alterare la realtà ha chiaramente a che fare con la diffamazione tout-court delle teorie “cospirazioniste” descritta poco sopra, alla quale vanno sommate anche le strategie di omissione discorsiva o di trattazione superficiale di fenomeni realmente legati a cospirazioni e bugie diffuse dal potere (Operazione Gladio, progetto MKUltra, strategie della tensione in Italia, oppure tutte le guerre fomentate ad hoc dagli Stati Uniti, etc.).
Ma non si tratta solo di questo.
C’è anche un altro aspetto che permette ai media di rimuovere sempre di più il dubbio e la capacità critica di comprendere la presenza di “disegni dall’alto” presso i loro fruitori, ovvero: la (fuorviante) capacità di intromissione in sfere di informazione ritenute un tempo segrete e riservate.
Questo meccanismo è stato descritto dal sociologo della comunicazione americano Joshua Meyrowitz nel suo saggio “No Sense of Place” del 1985. Egli fa l’esempio di un presidente statunitense di fine Ottocento, Grover Cleveland, cui fu diagnosticato un grave tumore alla mascella, a causa del quale egli dovette effettuare una pionieristica operazione chirurgica che gli rimpiazzò interamente il palato con una protesi artificiale. All’epoca, però, della malattia e dell’intervento del presidente non si seppe nulla: i giornali, dice Meyrowitz, non penetravano ancora troppo nella sfera riservata e nella vita privata di un “potente”, rispettando di fatto la relazione tra segretezza e potere. Per contro, se il problema di salute del presidente Cleveland e la sua miracolosa cura si fossero verificati un secolo dopo, i mezzi di comunicazione non avrebbero taciuto nulla a proposito. Oggi la cosiddetta “vita privata” di politici ed altre figure di spicco in società è di dominio pubblico nel campo dell’informazione: se ne parla in televisione, sui social, sui giornali (e non solo in quelli di gossip), ma sono anche le personalità stesse in questione ad esibirla nei suoi dettagli più triviali attraverso i profili social, mostrando di poter diradare all’occorrenza l’aura di “segretezza” che circondava in tempi passati il vissuto quotidiano degli “individui” al vertice sociale.
Allo stato attuale, quindi, la comunicazione mediatica mainstream riesce a darsi l’aria di un narratore onnisciente, capace di penetrare in diverse sfere di riservatezza, alternando occasionalmente e sapientemente le trivialità appena accennate a questioni di maggiore importanza pubblica – ad esempio, i recenti casi di corruzione del “Qatargate” all’interno del Parlamento Europeo. Chi riceve messaggi mediatici senza rifletterci a fondo sente allora di potersi fidare della loro voce, di essere in grado di esercitare attraverso essa un largo ed esaustivo controllo informativo sull’ambiente sociale, compreso quello degli “altolocati” – i cui risvolti privati più scabrosi, come festini pieni di prostitute, intrallazzi con giovani stagiste o cospicue tangenti accettate nell’ombra, non sembrano più nelle condizioni di mantenere un’aura di segretezza. Ordunque, se di un determinato disegno istituzionale, sociopolitico o geopolitico ancora più scabroso non ne accennano o parlano la TV o i giornali, allora esso è una teoria cospirazionista o negazionista, un’allucinazione campata in aria.
Ovviamente, bastano pochi esempi per dimostrare come questo “potere” dei media sia una connotazione fuorviante ed illusoria e che accettarla sia una lettura superficiale della realtà.
Ad esempio, esiste forse qualche agenzia stampa o organo ufficiale che renda noti al pubblico i metadati telefonici e informatici, le informazioni sulla posizione o le intercettazioni delle comunicazioni delle figure istituzionali? Questo sì che equivarrebbe ad avere più conoscenza e “controllo” sul loro ambiente, a capire quanto i loro affari privati si mischino a quelli d’interesse pubblico. Al contrario, abbiamo scoperto grazie ad Edward Snowden che fino al 2013 (e probabilmente anche dopo) questo tipo di informazioni altamente private era costantemente e segretamente intercettato e registrato dall’NSA, l’agenzia di sicurezza nazionale del governo più potente al mondo (gli Stati Uniti), la quale si concentrava soprattutto sulle comunicazioni e sulle attività in rete di milioni e milioni di comuni cittadini nel mondo.
Oppure, per ridimensionare la nozione che ogni tanto gli scandali politici emergono e certe teste “cadono” anche grazie alla stampa, basta guardare l’attualità: negli scorsi mesi la faccenda delle corruzioni qatariote in Parlamento Europeo è emersa con sconcertante rapidità ed altrettanto rapidamente ha portato alle dimissioni di figure non da poco, come la vicepresidente del Parlamento Eva Kaili; allo stesso tempo, però, va notato che la presidente Ursula von der Leyen continua da mesi a glissare accuse di frode commerciale ancora più pesanti ripetendo banalmente che ormai “ha cancellato gli SMS” con Albert Bourla di Pfizer dal suo cellulare (come se fosse cosa impossibile recuperarli…).
Per concludere, si può dire che basterebbero le sole evidenze dell’appartenenza di televisioni e testate giornalistiche a gruppi economici con precisi interessi e della conseguente influenza di questi ultimi sull’agenda dei temi trattati e la maniera di trattarli per ridimensionare drasticamente il “potere” dei media di farci conoscere cosa accade in certi piani alti della società. Non è cosa nuova, negli studi sulla comunicazione di massa, come una delle funzioni generali delle istituzioni mediatiche sia il mantenimento dello status quo piuttosto che la sua messa in discussione. Ma la facciata di “onniscienza” e di libero accesso a sfere private e riservate dei media è sempre più capace di mettere in secondo piano questi dati di fatto, e dunque di illudere i lettori più acritici, dando loro l’impressione che, se ci fosse un disegno di interessi nascosto che coinvolge i più alti vertici della società, i giornali ne avrebbero parlato senza peli sulla lingua.
- “NATURALITÀ” SOCIALE
C’è un altro tratto caratteristico che identifico nei discorsi fatti da quei soggetti che credono a tutto ma non alla possibilità di una “cospirazione”. Forse sto andando un po’ troppo oltre con l’analisi di questa forma mentis, che magari è solamente e banalmente dettata dall’ingenuità e dall’ignoranza generale dell’uomo moderno; ma se ci rifletto, al di là del potere delle fonti mediatiche di informazione, rilevo la presenza di un inconscio errore di fondo nel modo stesso di “leggere” il sistema della società umana e la natura delle sue dinamiche.
Esso lo ritrovo nella tendenza a visualizzare e descrivere certi eventi “eccezionali” (lo “scoppio” di un conflitto armato, la caduta di un regime, catastrofi come l’11 settembre o la pandemia e via dicendo) come uno spontaneo susseguirsi di dinamiche e processi puramente impersonali: come fossero, in sintesi, eventi “naturali”. Esatto, semplici fenomeni dell’“ecosistema umano”, paragonabili quanto a manifestazioni e sviluppi ai fenomeni biologici, geologici o meteorologici – eventi dettati da processi più o meno lunghi e complessi, ma mancanti di una propria “agentività” di fondo (mia traduzione del più efficace termine inglese “agency”) cosciente, non casuale, non impersonale. La formazione di cavità carsiche, stalattiti o stalagmiti, la comparsa di trombe d’aria o temporali, i terremoti e tutti gli altri fenomeni naturali richiamabili alla mente non possono essere ricondotti ad un’agency, ad un soggetto consapevole della sua azione*, quale potrebbe essere una delle svariate divinità antropomorfe delle religioni antiche: un terremoto con conseguente tsunami non si scatena perché il Dio del Mare e il Dio della Terra hanno deciso di sfogare le loro comuni delusioni sugli abitanti “infedeli” dell’isola colpita, e via dicendo.
Il vero problema è quando questo dato di fatto penetra inconsciamente nella rappresentazione e nella lettura generale degli eventi politici, storici ed economici della società umana. Proprio perché il sistema sociale umano è composto da gerarchie e gruppi più o meno potenti di UOMINI, persone perfettamente consapevoli del loro esserci ed agire al mondo, è insensato guardare ai suoi eventi storico-politici più sconvolgenti e alle sue dinamiche socioculturali più lente senza almeno tentare l’identificazione e la descrizione dell’agency che vi è dietro! Ci saranno sempre, insomma, uno o più “Dèi” (soggetti) che hanno contribuito al dispiegarsi di un fenomeno della storia sociopolitica umana, ai quali si può pervenire attraverso un atteggiamento analitico-investigativo “a ritroso” dei fenomeni stessi. Ma se tale investigazione si dichiara sin dall’inizio schizzinosa verso le ipotesi di una “cospirazione”, propendendo verso un’ideale natura spontanea degli eventi e non premeditata/guidata da un’agency umana precisa, allora i suoi risultati non potranno essere che sterili ed incompleti.
Una causa di quanto appena detto può essere l’attuale “cultura del sapere”: concentrata a valorizzare senza sosta le “scienze dure”, portando sempre di più le scienze sociali a voler assumere la loro stessa connotazione e le loro stesse pretese di “oggettività”. Se questo si traduce in un’elevazione dei metodi e degli approcci delle prime come soli strumenti di valida conoscenza, allora va da sé che la lettura generale di ciò che accade nel mondo vada ad essere influenzata dalla prospettiva delle scienze naturali verso la natura dei fenomeni che studiano.
È anche singolare notare come questa “naturalizzazione” delle dinamiche umane sia anche uno dei cardini dell’orientamento economico predominante nella politica occidentale, ossia il neoliberismo: le teorie fondanti di Milton Friedman, infatti, affermavano che, liberando l’economia e il mercato (due ambiti largamente basati sull’agency dell’essere umano) da tutte le “inferenze” deformanti dello Stato di natura socialista o keynesiana, i due ambiti avrebbero recuperato uno stato di equilibrio ed armonia naturale, analogo alle dinamiche spontanee e ai rapporti “idilliaci” tra forme di vita che possiamo rilevare in un ecosistema ambientale. Fondandosi sulla rimozione dell’elemento di agency umana in campi e processi indissociabili dall’azione dell’uomo in società, l’eredità concettuale neoliberista è quindi un influente esempio di affermazione di una naturalità intrinseca laddove essa in larga parte non sussiste. E, magari, questo tipo di visione si è allargato, nel modo accademico e non solo, alla lettura tout-court della politica e della storia umana.
* [per dovere di cronaca verso il lettore, va puntualizzato come oggi nemmeno questo assunto sia più universalmente valido, dato che nel secolo scorso l’uomo ha cominciato a mettere a punto diverse tecniche per elevarsi a “dio” manipolatore dei fenomeni naturali. Si cerchi ad esempio ”Operazione Popeye” in riferimento all’inseminazione artificiale delle nuvole per causare precipitazioni; o si tenga presente che in alcune puntate di Voyager e di altri programmi TV di divulgazione scientifica venivano mostrati esperimenti di stimolazione artificiale dei terremoti o di creazione/ingegnerizzazione di virus e batteri in laboratorio.]
- “UMANIZZARE” LE ISTITUZIONI
Poniamo che i “tipi umani” di cui stiamo analizzando la mentalità, messi di fronte ad evidenti contraddizioni o ingenuità nell’interpretazione di certi eventi, riescano in un guizzo di lucidità a rendersi conto che qualcosa nella narrazione ufficiale non torni e manchi di coerenza.
Se c’è un tentativo di spiegazione che costoro cercheranno di dare alla fallacia, allora questo corrisponderà quasi certamente ad uno o più fra i seguenti: “eh, stavolta hanno sbagliato” – “in effetti hanno esagerato” – “ciò che hanno fatto è stato inutile”.
Ora, non c’è nulla di effettivamente errato nel proferire tali giudizi in riferimento ad un’incoerenza o ad un abuso di potere in campo politico; in tali giudizi, però, si cela spesso un limite interpretativo che impedisce di fare il passo ulteriore, ossia comprendere che questi “errori” o “esagerazioni” non sono grosse negligenze o scivoloni ingenui, bensì molto più probabilmente la punta dell’iceberg di un progetto politico più ampio.
Come si può infatti usare, nei confronti di un’influente e grande istituzione (un governo; un comitato tecnico politico; una classe diplomatica; una fondazione con capitali miliardari alle spalle) lo stesso linguaggio e quindi lo stesso quadro di riferimento interpretativo che utilizziamo per definire le cose che ci capitano nella vita di tutti i giorni? Gli “sbagli”, le “scelte inutili” o le “esagerazioni” sono cose che possono succedere in situazioni relativamente “semplici” ad un genitore, ad un amico, ad un insegnante, tutt’al più al proprio capo-reparto sul lavoro o alla dirigenza di una scuola o di una realtà aziendale locale; ma NON di certo ad una realtà istituzionale e sistemica altamente organizzata che possiede enormi capitali di informazioni e conoscenze top secret, vaste possibilità di consulenze tecniche, manuali e linee guida dettati dai più influenti organismi transnazionali, comunanza d’interessi con varie lobby private, contatti più o meno diretti con i maggiori centri di potere, e via dicendo.
È semplicemente impensabile che la maggior parte delle grandi istituzioni, avendo per forza di cose le caratteristiche appena elencate, possa – almeno per quanto riguarda questioni di elevata importanza sociopolitica o geopolitica – letteralmente “cadere in errore” per ingenuità o negligenza ed essere così naïf da non capacitarsi in anticipo delle conseguenze di un’azione drastica o di una decisione divisiva. Ciononostante, l’ingenuo cittadino è portato piuttosto ad “umanizzare” i suoi politici e le sue istituzioni, ovvero a tendere ad una lettura del loro operato analoga al modo di leggere azioni e dinamiche che incontriamo costantemente nel vissuto quotidiano. Nella sua mente manca allora quella scintilla che permette di richiamare alla ragione le effettive caratteristiche delle grandi istituzioni sopra citate, passaggio che permetterebbe di interpretare il “grande errore” come qualcosa di inevitabilmente commesso con consapevolezza, dunque perlomeno intenzionale. Tutt’al più, in questo quadro di umanizzazione delle dinamiche politiche, possono essere comunque contemplati fenomeni di manipolazione o mistificazione, ma essi vengono inquadrati in un’ottica puramente “caratteriale” e individualistica: mossi, insomma dall’eccessiva ambizione della persona manipolatrice e dalle sue pulsioni personalistiche ed immorali, piuttosto che da un disegno sistemico e da rapporti di interesse altamente strutturati.
Sicuramente un fattore d’origine di questa distorsione può essere identificato nell’agenda setting e nelle strategie comunicative dei media, che come ho già accennato al punto I si concentrano spesso e volentieri sugli aspetti quotidiani e personali della vita di politici e figure istituzionali, facendoli sembrare a tutti gli effetti “persone come noi” (gran bella deformazione della realtà).
Per non appesantire eccessivamente il discorso, postulando ulteriori concause, semplificazioni percettive o meccanismi di proiezione-identificazione in domini che non mi competono, ritengo però che sia meglio fermarsi qui e passare al punto successivo.
- IL RUOLO DELL’EDUCAZIONE STORICA
Ritengo che un ultimo fattore di distorsione vada individuato nelle modalità di spiegare eventi e processi storici che possiamo ritrovare in molti manuali di storia e nell’insegnamento della materia nella scuola dell’obbligo. Queste modalità possono ovviamente trovarsi anche in altri contesti più informali e legati alla comunicazione di massa, ma è soprattutto sui primi ambiti che intendo concentrarmi.
Prendendo in esame l’educazione storica ricevuta a scuola, va subito sottolineato un vizio d’omissione: spesso e volentieri, nei programmi ministeriali, ci si ferma agli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, lasciando alla storia contemporanea un finale sospeso sull’intervento eroico degli Stati Uniti in Europa ma più brutale in Giappone, su quello indispensabile ma un po’ meno ammirevole dell’Unione Sovietica, e sui successivi trattati di ricostruzione post-bellica del mondo, con vaghi accenni alle tensioni globali che da questi ultimi in poi si accesero. Praticamente, tutto il successivo ed intricato capitolo della Guerra Fredda, quello dell’egemonia e del controllo statunitense su buona parte del mondo con le sue conseguenze e quello sulle dinamiche dei regimi filosovietici o filocinesi sono lasciati al “sentito dire”.
In più, qualora per dovere di cronaca le fonti o gli insegnanti decidano di accennare a ciò che viene dopo (per esempio la guerra in Vietnam, gli sconvolgimenti politici in America Latina, gli “anni di piombo” in Italia o la loggia P2 di Licio Gelli), il rischio è di trovarsi di fronte alla mancanza di riferimenti alle dinamiche più sotterranee che hanno contribuito a scatenare i fenomeni, o ancor di più alla mancata distinzione fra ciò che si sapeva su tali eventi nel momento in cui si verificarono e ciò che si seppe su essi soltanto in un secondo momento. Si evita di mettere nero su bianco, ad esempio, il fatto che per molti anni il governo americano disse bugie ai suoi cittadini sul conflitto in Vietnam, sul coinvolgimento degli Stati Uniti in esso e sulle reali intenzioni di quest’ultimo (verità svelate per esempio dal “whistleblower” Daniel Ellsberg attraverso i Pentagon Papers nel 1971); oppure non si approfondiscono minimamente i perversi e sofisticati piani di destabilizzazione e controllo dei movimenti d’opposizione stilati nei decenni dai servizi segreti, come per esempio l’Operazione Gladio sul suolo italiano, e le loro conseguenze sull’evoluzione sociopolitica di un dato paese.
A pensarci, si tratta più o meno dello stesso grave difetto che sussiste nell’insegnamento e nella divulgazione scientifica: presentare soltanto i risultati senza i retroscena, senza tutto il processo fatto di vicoli ciechi e di evoluzioni di un’ipotesi iniziale, di diatribe tra scienziati con diverse posizioni ed evidenze sperimentali alla mano, e via dicendo.
Infine, l’insegnamento storico, man mano che attraversa i secoli per arrivare verso la contemporaneità, sembra quasi voler mostrare e ricalcare – magari implicitamente ed involontariamente – una ottimistica “linea di progresso” nell’evoluzione dei rapporti fra potere gerarchico e società: una sorta di climax in cui, sebbene vi siano anche occasionali momenti di ricaduta, il Potere viene sempre più arginato, sommerso o direttamente “castrato” nel suo profondo da sconvolgenti rivoluzioni che chiedono libertà e uguaglianza, nuovi limiti costituzionali e forme di governo democratiche e mirate all’equilibrio rappresentativo e funzionale.
Insomma, il regime nazista ha preso le bastonate definitive durante il processo di Norimberga, gran parte dei paesi occidentali si è trasformata in democrazie rappresentative liberali e diverse minoranze hanno finalmente ottenuto quei diritti umani che reclamavano da secoli o decenni: com’è possibile che quel cinico connubio di avidità e brama di dominio, interessi di una ristretta élite, imbrigliamento delle libertà individuali e governance insensibili, che tanto fa pensare all’Ancien Régime o al Ventennio dei totalitarismi, sia ancora vivo, vegeto ed operante sotto nuove e pericolose forme? E se proprio qualcosa di tutto ciò sopravvive, non è una forzatura anacronistica parlare ancora di disegni segreti, piani di dominio mondiale e ‘cospirazioni’ in salsa massonico-settecentesca?
Un ragionamento simile può proprio essere il prodotto di difetti nell’educazione storica come quelli che ho appena affrontato ed altri ancora: omissioni di fatti, trattazioni superficiali, mancanza di interpretazione critica e atteggiamento “indulgente” verso gli eventi e le categorie politiche su cui si fonda di più il presente.
Fin dal momento della nostra formazione adolescenziale, quindi, ci confrontiamo il più delle volte con degli schemi di pensiero che non ci permettono di comprendere l’effettiva evoluzione dei “poteri forti”, per usare una parola tanto cara agli screditatori di certe tesi. Si sarà così portati a rifiutare il paradigma della cospirazione, vedendo solo “gomblottih” fantasiosi e inesistenti laddove vi sono invece significativi “cambi d’abito” storici e strutturali da parte del Potere stesso, il quale può così continuare incensurato ad espandere e conservare i suoi interessi senza attirare il minimo sospetto.
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